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 2010  dicembre 14 Martedì calendario

QUASI QUASI È PIÙ ONESTO SUO COGNATO

Fra i due il cognato con la “c” minuscola si è rivelato lui, Gianfranco Fini. Dopo molti mesi una riabilitazione è dovuta. L’altro, Giancarlo Tulliani, che con quella parola “il cognato” veniva un po’ sminuito si è rivelato alla fine il vero gigante di famiglia. Non ha mollato di un centimetro, se ne è restato a Montecarlo probabilmente tenendosi le chiavi dell’appartamento di boulevard Princesse Charlotte 14. Basterebbe per capire tutto la foto scattata pochi giorni fa, con Tulliani ad alzare i calici davanti a due superbe bionde nell’esclusivo Beef Bar dell’Hotel de Paris di Montecarlo. È il posto dove trascorreva il suo buen retiro la compianta e indiscussa sacerdotessa unica del potere italiano, donna Maria Angiolillo. E basterebbe questo luogo a fare capire chi dei due cognati sia quello importante. Perché mentre il giovane ragazzo dalla Ferrari blu festeggiava facendo tirare fuori dalla prestigiosa cantina il meglio del Principato, il cognato di Tulliani stava trasformando la Camera che gli era stata affidata in una cameretta. Incurante della forma, del decoro delle istituzioni, della carica che il suo vecchio partito ingenuamente gli aveva
affidato nel lontanissimo 2008, il piccolo cognato Fini stava violando l’articolo 67 della Costituzione convocando uno dopo l’altro parlamentari del gruppo da lui fondato e perfino di altri gruppi, provando a condizionare il voto di fiducia che liberamente dovrebbe essere espresso oggi. Non era mai accaduto che la Camera fosse trasformata in cameretta personale da un alto rappresentante delle istituzioni. Non esistono precedenti nella storia repubblicana, e quel che è avvenuto negli ultimi mesi e soprattutto nella giornata di ieri nell’ufficio del presidente dell’assemblea di Montecitorio trasformato in suk come fosse la tenda personale del Gheddafi di turno, è cosa da fare rivoltare nella tomba i padri della Repubblica. I fatti avvenuti in questi mesi ribaltano le cronache dei giornali: fra i due cognati quello che ha mostrato una certa statura e perfino una indubbia personalità, è quello che è restato a Montecarlo con la sua Ferrari, non quello che ha restituito notte tempo la Bmw da 100mila euro che in gran segreto si era fatto comprare dal partito in cui non aveva più incarichi (Alleanza nazionale), pur avendo tenuto saldamente in mano le chiavi della cassa.
Piccole cose, certo. Ma di cose così piccole è costellata l’avventura politica di Fini in questi mesi. La piccineria con cui è stato ricoperto fin qui un incarico istituzionale è talmente evidente da non avere bisogno di grandi annotazioni. Basti citare per cosa è stata usata quella carica istituzionale in questo biennio. Per convocare lì un dirigente Rai, Guido Paglia, e intimargli di assegnare commesse alla società di Tulliani, lì presente (e anche qui mentre il presidente della Camera scendeva a tali piccinerie, in fondo il cognato di Montecarlo ha raggiunto il suo obiettivo: business cercava, business ha avuto lavorando e portandosene a casa i frutti). La presidenza della Camera è stata utilizzata come suk anche durante uno degli episodi più oscuri della inchiesta sulla cricca degli appalti
pubblici: dalla segreteria di Fini è partito un pressing vincente e intercettato dai Ros per fare avere rapidamente un pagamento da 1,5 milioni in quel momento non dovuto a Francesco De Vito Piscicelli, imprenditore tristemente noto perché intercettato mentre si rallegrava la notte del terremoto de L’Aquila per le commesse della ricostruzione che gliene sarebbero derivate. Quell’incarico e quel luogo istituzionale sono stati utilizzati come suk da Fini per organizzare la scissione nel Pdl e creare prima un nuovo gruppo parlamentare e poi addirittura reclutare l’organico nazionale e locale di un nuovo partito. Nell’ufficio del presidente del suk sono stati blanditi parlamentari, sono arrivate offerte di incarichi di partito,
sono state assegnate responsabilità, sono state fatte promesse, ci sono state perfino scenate e minacciosi scatti di nervi come quelle raccontate dall’ex finiana Souad Sbai quando ha comunicato la sua decisione di ritorno nelle file del Pdl. Tutto questo è avvenuto in palese violazione dell’obbligo che il presidente della Camera ha di tutelare la libera determinazione dei deputati secondo i dettami dell’articolo 67 della Costituzione che così recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Piccolo interprete si è mostrato Fini nell’abito da presidente della Camera, piccolo leader anche alla guida della scialuppa di Futuro e Libertà. Un ondeggiamento dietro l’altro, una continua giravolta che ha fatto spesso smarrire i suoi. Fino a portarli al voto di fiducia di oggi con decisioni adottate per determinazione dirigenziale (non un dibattito, non una discussione di gruppo prima della presentazione della mozione di sfiducia al governo di Silvio Berlusconi a mostrare quanto fosse ipocrita la doglianza finiana sulla scarsa democrazia esistente nel Pdl). Un vero leader non manda all’arrembaggio le truppe: elabora una strategia, spiega le soluzioni immaginate, tesse accordi di ferro predeterminando la soluzione per il dopo spallata. Nel disorientamento mostrato ieri da Maria Grazia Siliquini (una che a Mirabello incitava la folla a gridare “Fini, Fini!”) c’ è proprio questa assenza assoluta, questa ipocrisia di un leader piccolo piccolo, divorato da questioni di pancia e antipatie personali. Comunque vada la questione di fiducia odierna, segnerà solo un episodio infelice della miniepopea del piccolo cognato di Tulliani.