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 2010  dicembre 15 Mercoledì calendario

«FINI PEZZO DI M...A» E IL GESTO DELL’OMBRELLO

La prima chiama del voto sulla mozione di sfiducia inizia alle dodici e venti. Il clima è da apocalisse. Dentro o fuori. È un sì o un no a un’intera epoca politica, come dice Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl. Ma l’ennesimo referendum contro il Caimano dalle sette vite, a mano a mano che avanzano le deputate e i deputati per votare, si trasforma in boomerang micidiale per il presidente della Camera. L’aula diventa uno stadio, tanto per cambiare, e l’assembramento nella parte destra dell’emiciclo prende coraggio. Applaude, ride, sfotte. Quando vota Antonio Iannarilli da Frosinone è chiaro che il referendum, stavolta, è contro Fini. Iannarilli grida il suo «no» alla sfiducia e poi passando sotto la presidenza insulta il traditore: «Pezzo di merda». Testuale. Tocca a Mario Landolfi, ex ministro di An. Pure lui grida «no» e dà il cinque ad Amedeo Laboccetta.
u segue dalla prima pagina
Laboccetta è un altro ex finiano rimasto nel Pdl. Il centrodestra ortodosso sfoga tutta la sua rabbia contro Fini. E i più duri sono proprio gli ex colonnelli post-missini. Uno per tutti: il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Canta, La Russa, e canta un motivetto arboriano di Indietro tutta: «Abbiamo vinto, non si divide, chi vince ride, ah ah ah ah...». Spietato, il ministro ricorda: «La prima volta che l’abbiamo cantata era al congresso in cui Fini ha battuto Rauti. Chi l’avrebbe detto che mi sarei ritrovato a cantarla proprio contro Gianfranco». Era il 1987, al congresso del Msi di Sorrento. Ventitré anni fa. Altri tempi, altro clima da stadio. Le cose cambiano.
L’ottimismo di Fini, e dei falchi di Futuro e Libertà che attorniano il capogruppo Italo Bocchino, si incrina definitivamente a un quarto alle tredici. L’ex ministro Andrea Ronchi, sciarpa blu al collo, sale al banco della presidenza e confabula con l’amico-capo Gianfranco. Su un lato, al microfono della chiama si fa il nome di «Moffa Silvano», una delle colombe di Fli in bilico. Moffa non c’è. Non risponde. Passa Alessandra Mussolini. La curva del centrodestra applaude. Mara Carfagna, accanto a Galan nei posti riservati al governo, prima fa finta di nulla e continua a parlare al telefonino, poi non resiste e butta un’occhiata alla nemica-vajassa. Alle dodici e cinquantanove, l’ovazione numero uno del Pdl. È il turno di Catia Polidori, finiana data in forse insieme con Moffa. Fini sta per prendere un caffè. Gira lo zucchero con il cucchiaino. Polidori è lesta. Vota no. Il tabellone rilancia la sua decisione: «Polidori Catia ha votato no». Boato. Fini si porta la tazzina alla bocca. Di fronte a lui esplode la rissa. Giorgio Conte di Fli grida «troia» alla Polidori, secondo la versione della berlusconiana Nunzia De Girolamo. A guidare la reazione, per lavare l’offesa, è il leghista Gianni Fava. Arrivano i commessi. Giusto in tempo per frenare Roberto Menia, finiano, partito all’assalto di Fava. Gli insulti continuano, conditi da gesti volgari modello ultrà, come quello delle mani portate alla patta ritmicamente. Seduta sospesa.
Si riprende dopo pochi minuti. Vota Razzi, dipietrista pentito. Vota no e la Prestigiacomo esulta a braccia alzate. Tocca a Ronchi. La curva del Pdl lo sfotte: «Ciao Ronchi». Un addio sarcastico. Poi un «oooooooooooooo» prolungato di attesa, quando lo speaker annuncia «Scilipoti Domenico». Altro ex dipietrista che con Calearo e Cesario forma la Trinità del Movimento di Responsabilità Nazionale. Nella sua dichiarazione di voto, il siciliano Scilipoti, Mimmo per gli amici, ha toccato vette sublimi sfociando nella metafisica: «Oggi noi del Movimento di Responsabilità Nazionale faremo una scelta dolorosa e traumatica ma rivoluzionaria per la patria e per il popolo. Una scelta che va oltre il limite della comprensione del paese e di questo parlamento». Strepitoso. Ma Scilipoti, alla prima chiama non risponde. Suspense.
Sono le tredici e quindici. In aula ricompare Silvio Berlusconi. Si posiziona in piedi in mezzo all’emiciclo e incrocia le braccia. Guarda i deputati che vanno a votare. Li accarezza con lo sguardo. Il suo arrivo porta un dono: la presenza di Silvano Moffa. Il finiano dissidente è marcato a uomo. Da La Russa e Laboccetta. Moffa e Berlusconi parlano. Poi, il marcamento continua. Stavolta la gabbia attorno al prezioso finiano è formata da Maurizio Lupi, Sestino Giacomoni, Paola Pelino. Arriva Rampelli, ex an del Pdl. Sorride e dà un buffetto affettuoso a Moffa. È fatta. Fini guarda altrove. L’aula applaude l’anziano Tremaglia, ex repubblichino di Fli, che procede col bastone e vota. È sempre il premier a catturare la scena, però. Il Cavaliere spiazza tutti e si dirige al centro. Sale per i banchi e si ferma da Casini. Si crea un capannello. Clima scherzoso, come se il premier raccontasse una barzelletta. Berlusconi allunga per gioco un ceffone al leader del Udc. Casini si scansa per evitarlo. Risata generale. Dalla presidenza, Fini sembra divertito e indica la scena con un dito. Berlusconi si congeda e stringe la testa di Buttiglione per salutarlo. Uno show nello show.
Alle tredici e ventitré, Silvio Berlusconi vota. Passa sotto la presidenza. Nemmeno uno sguardo tra lui e Fini. Il premier lo ignora e saluta Tremonti. Il presidente della Camera si consola con Casini. Il capo centrista, infatti, scende dal suo posto e va da lui. Si parlano per pochi minuti. Nel frattempo vota il Casalese del Pdl, l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, inquisito per camorra. L’opposizione del Pd dà finalmente un cenno di vita. Qualcuno grida: «In galera».
Il momento della verità si avvicina. Comincia la seconda chiama, quella decisiva per le assenze strategiche e non. Moffa non risponde. Ha deciso di non votare. Il centrodestra gusta la vittoria e rumoreggia. Il climax, per la maggioranza, è quando si materializza la piccola e tonda figura di Mimmo Scilipoti. «No» alla sfiducia. Fini si lascia andare e con la mano destra fa un segno eloquente. Come a dire: «Ti pareva». Poi ha un sussulto istituzionale e indica ai suoi di fare silenzio, portandosi l’indice destro al naso. A chiudere la seconda chiama è un altro responsabile nazionale, l’ex pd Bruno Cesario. Ennesimo no. I conti sono fatti. La sfiducia non è passata. Manca solo il sigillo finale dei numeri ufficiali. La scena che i falchi berlusconiani più ottimisti hanno sognato a lungo in questi giorni di attesa. Il presidente della Camera Gianfranco Fini che annuncia la sua sconfitta. Il sogno diventa realtà alle tredici e quaranta: «Presenti 627, votanti 625, astenuti 2. Maggioranza richiesta 313. 311 sì alla mozione, 314 no. La Camera respinge».
Contemporaneamente, nella curva del Pdl sbucano varie bandiere dell’Italia. A sventolare o ad avvolgersi nei drappi sono soprattutto donne. Tutte berlusconiane: Rizzoli, Giammanco, Calabria, Rossi. In fondo la fiducia è stata un giallo a tinte rosa. Le parlamentari incinte. Le due finiane dissidenti Siliquini e Polidori. E adesso le eroine tricolori del Pdl. Il primo coro è «Vittoria, vittoria, vittoria». Il secondo è tutto dedicato allo sconfitto: «Dimissioni, dimissioni, dimissioni». Il deputato Iannarilli da Frosinone, che quando ha votato no ha detto «pezzo di merda» a Fini, concede il bis: sale su uno scranno, balla e fa il gesto dell’ombrello. La seduta è finita. La curva intona l’inno di Mameli e si commuove. Tre voti di scarto. Quattro, in sostanza, calcolando l’assenza di Moffa. I finiani sembrano morti che camminano. Sono gli unici a perdere. È stato il loro leader a giocarsi tutto e a mettere la faccia su questa giornata.
Fuori dall’aula, i festeggiamenti continuano. I cortei per il Transatlantico sono guidati dai leghisti che cantano Va’ pensiero. Si sbeffeggiano i deputati sconfitti che capita d’incrociare. In un angolo, qualcuno sibila: «È inammazzabile». Il soggetto, ovviamente, è Silvio Berlusconi. Il quale si gode il trionfo e procede nel Transatlantico circondato da una ressa incredibile. Dice: «Sono sereno come lo sono sempre stato». Alcuni deputati allungano le mani. Lui le stringe. Berlusconi e il suo governo non sono ancora morti, politicamente parlando. Sarà pure vittoria simbolica o di Pirro, ma la temuta Apocalisse non c’è stata. Il Cavaliere è uscito vivo dal suo bunker, mentre fuori Roma brucia a causa dei redivivi black bloc. Il tormentone della fiducia si è concluso e Fini ha perso.