STEFANO BARTEZZAGHI, la Repubblica 14/12/2010, 14 dicembre 2010
LA STORIA DELLE PAROLE CHE DIVENTANO FIGURE
Si può scrivere una storia del rebus, ma non si può scrivere la storia del rebus. Non si può assegnare un decorso univoco e un solo destino a un´idea tanto fissa quanto mutevole, ubiqua e dispettosa: l´idea di alternare o sovrapporre la scrittura e la figura in modo che il loro insieme, una volta decifrato, riproduca un dato messaggio linguistico.
Per come lo conosciamo, lo pratichiamo (e lo nominiamo) oggi, il rebus ha certamente antenati riconoscibili: ma non pare possibile ricomporre il suo albero genealogico con soddisfacente completezza. Un´analogia può dare un´idea almeno approssimativa di quale storia sia la non-storia del rebus: bisogna pensare a una stirpe antichissima, che per secoli si sia riprodotta facendo scarso ricorso alla discendenza diretta e usando parecchio gli istituti dell´adozione, dell´affiliazione, dell´affido e del ripudio.
Un personaggio dello scrittore austriaco Peter Handke (nato nel 1942) a un certo punto perde drammaticamente contatto con le parole che scrive. Sostituisce alla parola sole il disegno infantile di un cerchio coronato da raggi; alla parola casa un altro disegnino; e così via. Da dove viene questa idea? È sicuro che Peter Handke sapesse chi fosse Lewis Carroll (1832-1898), l´autore dei libri di Alice. Ma non è necessario che Handke, al momento di scrivere quella pagina, avesse presente una certa lettera che lo stesso Lewis Carroll, con il suo vero nome di Charles Lutwidge Dodgson, aveva mandato a una bambina di nome Georgina Watson verso l´anno 1870. In questa lettera il pronome I è sempre sostituito dal disegno di un occhio (eye); la congiunzione and dal disegno di una mano (hand), e così via, procedendo per omofonie, perfette o meno.
Del tutto improbabile è poi che Lewis Carroll avesse a sua volta presente una lettera-rebus mandata da Stefano Della Bella (incisore fiorentino, 1610-1664) a un suo amico, utilizzando un principio analogo. E Della Bella avrà plausibilmente ignorato le pittografie preistoriche cui i suoi "rebus" ci lasciano pensare. Nessuno ha avuto bisogno dell´altro - né di alcun altro - per avere l´idea di alternare o sovrapporre scrittura e figura.
È così la storia di ogni singolo schema enigmistico, perché uno schema enigmistico si basa sulla combinatoria del linguaggio e ogni stato della combinatoria è sempre disponibile, per chi vuole o sa accorgersene. Nel caso del rebus si riscontra il solito viavai di idee: precedenti preistorici, episodi classici, aneddotiche medievali, fioriture rinascimentali, manieristiche e barocche, disegni e disdegni settecenteschi, riprese ottocentesche e normative novecentesche. A Handke è venuta la stessa idea che era già venuta a Carroll, ma anche a uno scriba dell´antico Egitto, a Leonardo da Vinci e a Edgar Wallace; se, oltre che delle figure, teniamo conto dei gesti e degli oggetti, possiamo aggiungere anche alcuni popoli africani, il gran genio di Jonathan Swift e le rituali allegrie degli scout in torpedone che, ignari delle implicazioni, cantano: «La macchina del capo ha un buco nella gomma».
Alberto Savinio si chiedeva: «Dicendo Roma, noi avevamo, io sono siamo proprio sicuri di dire ciò che crediamo di dire?» Dicendo rebus, siamo proprio sicuri di sapere a cosa ci riferiamo? Prendiamo ad esempio l´anagramma. Il primo anagramma che ci arriva è citato da Platone, come anteriore già di qualche secolo, ma non è chiamato con il nome di anagramma. La prima attestazione della parola anagramma è nell´Onirocritica di Artemidoro, ma non si applica a un anagramma bensì a quella che per noi oggi sarebbe una sciarada - o per essere più precisi, proprio a un rebus (inconscio, perché onirico). I primi anagrammi consapevoli sono quelli attribuiti a Licofrone, ma non avevano questo nome.
Con il rebus succede all´incirca lo stesso: allo studioso occorrerà inseguire, oltre al rebus propriamente inteso e denominato, anche tutto quello che non è rebus ma è stato chiamato con questo nome e tutto quello che è rebus ed è stato chiamato altrimenti.
Franco Bosio, l´appassionato ricercatore che una storia del rebus è arrivato a scriverla davvero, ha dovuto maneggiare testi di egittologia e bibliografie di enigmistica uruguaiana, riviste femminili americane di inizio Novecento e studi leonardeschi. Ne è risultato un libro che immagazzina le diverse incarnazioni che ha avuto una sola idea centrale: quella di scrivere parole mediante figure. Se c´è uno studioso di scritture antiche, dirà: «Certo, la pittografia!». Se c´è uno studioso di araldica, dirà: «Ah sì, gli stemmi parlanti!». Se c´è uno studioso di italianistica, dirà: «Come no! Gli "strambotti ziferati" del Baiardo!»
Il rebus dell´Ottocento non è quello del Novecento, il rebus italiano non è quello francese, il rebus italiano di fine Novecento non è sempre lo stesso gioco, a seconda che provenga o non provenga dalla scuola della Settimana Enigmistica, di Giancarlo Brighenti, di Maria Ghezzi. Con una sintesi davvero estrema si può dire che in termini generici per rebus si intende ognuno dei giochi che fanno passare da figura a scrittura (da segni iconici a segni scritti); in termini specifici, con il Novecento il rebus italiano è entrato nell´enigmistica, quindi in un territorio recintato da mille convenzioni. Nei secoli, nei decenni, si è dato regole severe per garantire i suoi solutori dagli estri sfrenati degli autori. Tale processo si è perfezionato nella seconda metà del secolo appena passato, soprattutto grazie alla Settimana Enigmistica, al capo della sua redazione rebussistica, Giancarlo Brighenti (pseudonimo: Briga), e alla sua principale illustratrice, Maria Ghezzi (pseudonimo: Brighella). Dalle sequenze di immagini slegate si è passati alla vignetta unitaria; dalle parole in libertà della soluzione a modi di dire di soddisfacente coesione; dalle grafie eterodosse, con troncamenti e arbitrii, alle forme standard depositate nei vocabolari. Le regole della scuola rebussistica di Briga sono sia norme di funzionamento sia canoni stilistici: una particolarità dell´enigmistica e specialmente del rebus è che i due generi di regole a un certo livello di eccellenza tendono a confondersi (ciò che mette la tentazione di pensare che da gioco l´enigmistica possa diventare arte). Livello di eccellenza che però corrisponde anche a un livello di specializzazione: solo l´appassionato che conosce bene norme e usanze può sperare di esserne garantito e di arrivare a risolvere i rebus più complicati tra quelli che vengono pubblicati negli ultimi anni. A volte persino apprezzare i migliori exploit richiede un certo tirocinio: l´arte torna a essere un gioco, le cui sottigliezze sono avvertite solo da chi abbia un´esperienza e una preparazione equivalenti a quelle che permettono di appagarsi di una partita di scacchi leggendone il resoconto nella notazione algebrica in uso sulle pubblicazioni specializzate.
Come racconta Franco Bosio, nell´Ottocento era usuale che uno spirito bizzarro in grado di disegnare costruisse un rebus e, in quattro e quattr´otto, lo illustrasse da sé. Oggi l´autore o l´autrice di rebus è colui o colei che costruisce il meccanismo linguistico del gioco (la "chiave"), lasciando a un disegnatore il compito di sceneggiare la figura adatta e realizzarla. La delicatezza del meccanismo del rebus è anzi tale che può persino non essere troppo facile intendersi con il disegnatore, se non ha la sensibilità di immedesimarsi in chi quel rebus dovrà risolvere. Se rebus è figura-scrittura, per metterlo sulla pagina all´illustratore non necessita solo la precisione del tipografo ma anche quella del traduttore: e come ogni traduttore letterario si avvantaggia, quando è possibile, del rapporto con l´autore, così il rebus contemporaneo nasce soprattutto dal rapporto fra l´arte figurativa di Maria Ghezzi e l´arte enigmistica degli autori, rapporto mediato dalla colta maieutica di Giancarlo Brighenti. Dalla precisa rappresentazione dell´esemplare di una data specie botanica o animale sino alla resa di una sfumatura astratta nei rapporti fra due soggetti, la vignetta del rebus è un´area ad alta densità sintattica e semantica, in cui tecnica, sapienza, gusto si concentrano per conseguire uno scopo preciso: tracciare e al contempo nascondere la via di passaggio tra una vignetta e una frase. Una via che non è didascalica, come nei rotocalchi; non è allegorica, come negli emblemi; non è simbolica, come nelle imprese non è inconscia, come nell´oniro-analisi: ma combina variamente tutti questi procedimenti per ottenere una specifica sintassi enigmistica, convenzionale e non arbitraria.
Fuori da questa scuola ad alta specializzazione, e a numero chiuso, quali rebus sono possibili? L´articolo, poi divenuto capitolo di libro, in cui Giampaolo Dossena ha raccontato i rebus di Primo Levi, è la testimonianza di una pratica privata del rebus.
Lo scrittore, da lungo tempo autore di "chiavi" rebussistiche mai inviate a riviste enigmistiche, scopre con il computer la possibilità di illustrarle, grazie a uno dei primi software di disegno e sotto il fragile paravento dell´anonimato mostra all´esperto di giochi e di letteratura un proprio elaborato. Un divertimento, un passatempo.
Che poi, dovendo mostrare l´elisione di una lettera M, Primo Levi abbia scelto di raffigurare la scritta CAMPO che diventa CAPO, con gli ovvi addentellati che le due parole portano con sé, non è altro che la dimostrazione che il passatempo del rebus, come succede a ogni altro gioco enigmistico, ha inscritta sempre una possibilità ulteriore. Rebus sic mutantibus, la combinatoria potrà sempre sfociare in un´osservazione sul mondo: non importa se questo avvenga in modo didascalico, simbolico, allegorico, onirico-inconscio; né importa se questa visione del mondo preferisca continuare a celare i propri enigmi (ancor più, e prima, che le proprie soluzioni) dietro la maschera del gioco.