Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 14 Martedì calendario

Joya Malalai

• Farah (Afghanistan) 25 aprile 1978. Politico. Nel 2005 eletta alla Camera dei deputati afghana • «[...] È così romanzesca la breve esistenza di questa ragazza nata durante l’occupazione sovietica, cresciuta in un campo profughi pachistano e tornata nella desolata provincia di Farah, dove era nata, nel pieno della dittatura talebana, che una regista, la danese Eva Mulvad, ci ha fatto sopra un film, I nemici della felicità, premiato al Sundance Festival 2007, la rassegna voluta da Robert Redford. [...] Nel film Malalai Joya interpreta se stessa, a cominciare dal discorso che nel 2003 l’aveva resa famosa, l’atto d’accusa ai signori della guerra all’apertura della Loya Jirga, l’assemblea costituente. “Molti di voi hanno le mani insanguinate e dovranno essere giudicati da un tribunale internazionale”, aveva gridato ai mujahiddin che la guardavano sbalorditi. “Da quel giorno la mia vita ha smesso di appartenermi” [...] A battersi per i diritti dei suoi concittadini Malalai aveva cominciato fin dai banchi di scuola, quando era rifugiata in Pakistan, con un padre medico che aveva perso una gamba nella lotta contro i soldati di Mosca. Aveva continuato, poco più che adolescente, in una ong nata a Farah per insegnare leggere e a scrivere alle moltissime donne analfabete e ancora sottomesse alle regole tribali. Ma dopo il discorso alla Loya Jirga era diventata un’eroina popolare, “quasi come quell’altra Malalai che alla fine dell’800 si era tolta il burqa e aveva impugnato la spada per combattere contro gli inglesi”, come scrivono le sue sostenitrici nei siti Internet che le hanno intitolato. Nella sua provincia, la più povera e arretrata dell’Afghanistan, molte persone perseguitate corrono [...] da lei per avere un aiuto, dalle ragazzine vendute dalle famiglie a uomini con il triplo dei loro anni, ai contadini taglieggiati dai trafficanti d’oppio. Ma la lotta più pericolosa Malalai l’ha ingaggiata contro i signori della guerra, “che impediscono il ritorno della democrazia e, anche se hanno imparato a parlare di diritti umani per compiacere l’Occidente, opprimono le donne proprio come i loro fratelli talebani”. Da quando, nel settembre del 2005, era entrata alla Camera dei deputati con le prime elezioni almeno parzialmente libere del Paese, non ha smesso di denunciare i loro abusi, ricevendono in cambio minacce che la costringono a una vita semiclandestina. Spesso nascosta proprio sotto quel burqa che vorrebbe vedere messo al bando, la giovane deputata è quasi una primula rossa che appare all’improvviso dove meno la si aspetta. E anche questo accresce il suo mito. “Ho scelto di entrare in parlamento proprio per sfidare i fondamentalisti nella loro stessa casa, ho accettato la tortura di sedere accanto a uomini che ogni volta che prendo la parola cercano di togliermela, mi minacciano di stuprarmi, di farmi uccidere. Come del resto è stato fatto con altre donne scomode, con la presentatrice televisiva Shakiba Zanga e con la mia amica Shakia Zachi, un straordinaria giornalista radiofonica che portava una voce nuova negli angoli più sperduti dell’Afganistan”, dice Malalai. Ma è convinta che in un Paese come il suo solo le scelte estreme possono smuovere la cappa del silenzio e della censura. “Mi dicono che dovrei essere più prudente, più diplomatica. Ma io sono orgogliosa di dire la verità. So che in questo modo do anche a tanti altri democratici il coraggio di venire allo scoperto”, dice. [...]» (Chiara Valentini, “L’espresso” 9/8/2007).