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 2010  dicembre 14 Martedì calendario

PROVACI ANCORA BOBO

Per gli amici che vanno e ritornano indietro, Sergio Staino rimane ancorato al tavolo di sempre. Vedere senza osservare è un esercizio inutile, ma Bobo ha vissuto e quindi, indifferente alla decadenza, tratteggia anche con gli occhi velati. Iniziò nel ’79, su Linus, il mensile che amava e che negli anni freddi delle tasche vuote e del vino versato nel cammino, divenne molto più di una coperta. Poi Messaggero, Unità e le massime familiari di un microcosmo militante che emigrarono nella calda culla di un messaggio universale. L’architetto Sergio Staino disegna da trent’anni e nonostante la retina fosse impazzita già al tramonto dei ’70, tirarsi indietro non era tra le variabili. Cammina con il bastone, ride spesso, si orienta a fatica mantenendo stabile la religione unica dell’ironia: “Oggi è Santa Lucia, protettrice dei non vedenti, giorno perfetto per un’intervista”.
Staino, da dove partiamo?
Dai primi anni, sono quelli a formarci e renderci ciò che siamo. Fortunatamente Sono un meticcio perché gli incroci, anche quelli estremi, portano con loro un vento consolante.
La sua tramontana?
Mio padre era lucano, sud estremo, un bracciante fuggito dalla povertà con due sole strade davanti: fare il prete o il carabiniere.
Vicoli corti.
Babbo era una testa calda, i preti non lo vollero. Così indossò il pennacchio e da carabiniere conobbe questa fanciulla toscana figlia di un contadino anarchico poi diventato sindacalista, ferroviere e rivoluzionario.
Ossimori sentimentali.
Casini deliranti e contraddizioni politiche figlie dell’incontro tra due etnie che si comprendevano a stento. Il giorno dell’attentato a Togliatti, il padre di mia madre si trovò di fronte al mio babbo. Davanti alla ribollita, la discussione si alzò di tono. Il vecchio aprì le ostilità: ‘Guardia, fatti vedere poco in giro perché per l’insurrezione popolare aspettiamo soltanto il via da Roma’.
E suo padre?
Laconico. Freddo. Indignato. Si alzò e guardandolo dritto negli occhi disse soltanto: ‘Pregate dio che non succeda, perché la mia prima fucilata sarà per voi’.
Un bel clima.
A mio padre devo l’estroversione e la capacità di contaminarsi con gli altri, a mia madre la serenità. Se sono diventato un disegnatore lo devo a lei. Perdeva ore per insegnarmi a copiare figure fiabesche e stilizzazioni. Mi ha fatto amare il disegno e una cosa la fai bene solo se la ami. Altrimenti, qualsiasi mestiere è una condanna.
Altri precetti?
La dignità nel comportamento. La capacità di dire no all’ingiustizia, di sollevarsi senza ribellismi parolai, pure fertili per tradizione, a tutte le latitudini della Toscana. ‘Ricordati Sergio, i doveri vengono prima dei diritti’.
Sembra un motteggio di Bobo.
Bobo è morale e moralista. In ogni caso ha lasciato un segno. Me ne accorgo quando trovo dei giovanottoni di 30 anni: ‘Me lo fa un disegnino per mio padre?’. Richieste che mi rivelano quanto tempo sia passato davvero.
Perché Bobo è sopravvissuto alle epoche?
Fa scattare l’identificazione, in molti si riconoscono. Per le masse popolari legate alla sinistra, ha rappresentato lo sdogana-mento del fumetto. Oggi sembra automatico, ma nei primi anni ’80, per chi faceva satira avvicinare un lettore trinariciuto era un’impresa.
Addirittura?
Per uno abituato a leggere testi di Marx o editoriali di Togliatti e Berlinguer, trovare le mie figurine in mano ai suoi figli equivaleva a uno choc.
Quale l’orizzonte di Bobo oggi?
Soffre anche lui. Non è in crisi la satira, è in crisi la politica. L’autore satirico è l’ironico sintetizzatore di una passione. Se quella passione langue, piange anche la satira.
Il primo a darle fiducia fu Oreste Del Buono.
Non avevo una lira e la spinta pratica a inventare fumetti dipese da un imperativo prosaico: arrivare in fondo al mese. Io ero un precario dello scuola. Bruna, la mia compagna, una peruviana senza permesso di soggiorno. Del Buono era un galantuomo, Linus il mio faro e un po’ meccanicamente, pensai di spedirgli una mia striscia. Andò bene e continuai.
Fortunato.
La ventura fu che nel bagaglio che poi ebbi il coraggio di riversare sulle strisce, pulsava una vera crisi. C’erano ideali crollati, disillusioni, ferite. L’impegno militante nei marxisti-leninisti ai quali mi ero iscritto perché ritenevo il Pci troppo revisionista, mi aveva temprato e bruciato al tempo stesso, in un arco di tempo lungo un decennio. Dal ’68 al ‘78.
In vacanza, lei andava in Albania.
Raggiunsi la cecità ideologica prima di quella fisica. Avevamo il prosciutto sugli occhi, vedevamo nell’estremismo cinese o cubano il sol dell’avvenire. Quando mi snebbiai e intuii gli sbocchi tragici nei quali ci stavamo incanalando e il destino dei miei compagni di militanza, in bilico tra l’ingresso in manicomio e quello nel partito socialista, per recuperare il tempo perduto era già tardi.
Ma l’Albania di Enver Hoxha?
Gli albanesi si servivano di noi non perché sperassero che in Italia avremmo rovesciato il potere per instaurare la dittatura del proletariato, ma per una ragione più terrena. Ci usavano come specchietto per le allodole.
Specchietto?
Erano talmente isolati e raccontavano così tante balle al loro popolo per giustificare la follia totalitaria il regime che avevano necessità di una legittimazione dall’esterno. Utili idioti, questo eravamo. Però mi lasci dire una cosa.
Prego.
Non si può capire la parabola di un militante nei ‘70, senza capire cosa furono i primi anni ‘60. I fermenti che a un tratto trasmutarono in movimento.
I suoi ‘60 come furono?
Mi sentivo solissimo e in balera non andavo di certo. Mi dividevo tra il lavoro nella fabbrica di ceramica di Marcello Fantoni, l’ascolto dei dischi del Sole, i cineforum e i libri. Leggevo moltissimo: i volumi Einaudi, i testi teatrali, quelli sulla mobilitazione antifranchista.
Un’esperienza come Tango sarebbe ripetibile?
No, manca il partito totalizzante in funzione di stimolo. All’epoca c’era il Pci. La satira vive dell’intelligenza dell’autore e dell’ambiente circostante. Io non fui cattivo, irriverente tutt’al più, ma dall’interno della stessa chiesa, i graffi bastarono a creare il caos.
Aneddoti?
Al congresso di Rimini, il prologo dello scioglimento del Pci ero a pranzo nell’albergo in cui era ospitata la nomenklatura. A un tratto entrò Natta, il segretario.
Scena?
Mi vide nella sala e venne verso di me urlando. Gridò, diventò paonazzo: “Tu, tu, tu, te e il tuo maledetto Tango. Siete stati voi a trascinarci nella tragedia che stiamo vivendo”.
Esagerato.
Era un’accusa sovradimensionata, però un contributo a far crollare il Pci monolitico e ad aggiornarne le istanze, io, Pazienza, Ellekappa e Altan lo fornimmo.
Degli impulsi giovanili il Pci ha spesso capito poco.
È sempre stato così. Hanno uno schema in tasca e pensano di poterlo applicare a tutte le sfere. Alle pulsioni che animano gli operai, hanno sempre preferito i modelli prestampati, i giochi di corridoio. Un peccato.
Dicono che D’Alema la detesti.
Credo che tra noi ci sia un’amicizia profonda e che in certi momenti, come è normale, Massimo mi avrebbe visto volentieri morto.
Renzi le piace?
Non sono d’accordo con lui e la parola rottamare non mi garba. Però chi ha avuto la sua occasione , chi ha perso ripetutamente e ci ha ridotto in questo modo, dovrebbe sparire dal partito.
Duro.
Perché mai? Tirarsi indietro e occuparsi di altro non è mica una bestemmia. Questa prolungata eterodirezione bicefala tra Veltroni e D’Alema, è grottesca. Prolunga l’agonia, rende impossibile comprendere ciò che accade realmente nel Paese.
Tra Veltroni e D’Alema chi preferisce?
Veltroni sa fingere meglio, D’Alema almeno è trasparente. Walter, tra gli altri, ha anche quel difetto.
Insomma per l’assoluzione piena di un dirigente bisogna tornare al suo antico maestro di vita, Berlinguer.
Enrico aveva visto lungo ma noi non lo capimmo. Parlava di questione morale e austerità e quanto avesse ragione l’abbiamo capito molto tempo dopo, osservando i comportamenti di Craxi e Berlusconi.
Prospettive?
Quegli idioti dei brigatisti, eliminando Moro hanno ucciso l’ultima speranza di reale compromesso. Da allora etica, politica generale e interesse comune hanno preso strade diverse.
Un’ultima curiosità. Lei tra il 1989 e il ‘92 girò alcuni film. Poi si fermò.
Purtroppo non sono più stato in grado di farlo. Il cinema è molto divertente e puoi fare cose in compagnia, che è consolante. Mentre il disegno con le tavole elettroniche e i prodigiosi strumenti della modernità può mettere la cecità in un angolo e continuare a farmi pittare strisce a ritmi fordisti, la macchina da presa senza l’occhio somiglia da vicino al nulla.
Però resta la testa.
Infatti. È il cervello che fa ogni cosa. Disegno in automatico e anche senza l’autonomia di un tempo, mi resta l’attività onirica. Faccio sogni chiari, a colori, ha idea di quanto sia bello sognare continuando a vedere le cose perfettamente?