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 2010  dicembre 14 Martedì calendario

«VOTAI PER LA PENA DI MORTE ORA VORREI AVERLA ABOLITA»

«Uccidere una persona è sempre reato, anche se a premere il grilletto è lo Stato». «Ah, sì? Quindi se i marines prendessero Osama bin Laden non dovrebbero eliminarlo?». La chiacchiera popolare sulla pena di morte inquieta da sempre la società americana, come aveva notato Alexis de Tocqueville quasi due secoli fa, ma nei giorni scorsi il dibattito sulla legittimità delle esecuzioni capitali nella più antica democrazia del mondo si è arricchito dell’autorevole parere contrario di John Paul Stevens, novantenne ex giudice costituzionale nominato dal presidente repubblicano Gerald Ford nel 1975 e dimessosi a giugno dalla Corte Suprema di Washington.

L’intervento di Stevens, prima sulle colonne della New York Review of Books e poi dagli schermi di 60 minutes sulla Cbs, ha riaperto con grande clamore il dossier. Stevens è stato uno dei giudici costituzionali che nel 1976 ha votato per la reintroduzione della pena di morte negli Stati Uniti, dopo la moratoria decisa quattro anni prima dalla stessa Corte Suprema (di cui Stevens non faceva ancora parte). Già nel 2008, Stevens aveva cambiato idea e quindi giudicato incostituzionale la pena capitale, scrivendo un’opinione giuridica a corredo di una sentenza sulle iniezioni letali con cui vengono eseguite le condanne. Ma il mini saggio pubblicato sul numero in edicola della New York Review of Books spiega in modo più completo il cambiamento di posizione.

Il punto, scrive Stevens, non è discutere in astratto il principio della pena di morte, ma nemmeno chiedersi se la sua applicazione serva come deterrente sociale o se soddisfi il senso di giustizia dei familiari delle vittime. Anche perché è ormai appurato che la sentenza capitale è uno strumento di gratificazione non solo per mass media e opinione pubblica, ma soprattutto per quei politici e quei magistrati che hanno necessità di dimostrare all’elettorato di essere seriamente impegnati nella lotta al crimine.

La ragione primaria dell’incostituzionalità della pena di morte americana, secondo Stevens, è meno teorica e più pratica: non riguarda il principio astratto, ma il modo in cui è applicata. Stevens è partito dalla recensione di un libro (Peculiar Institution: America’s death penalty in an age of abolition) scritto dal professor David Garland secondo il quale c’è un motivo storico, culturale e istituzionale che spiega il motivo per cui l’Europa del Dopoguerra ha abolito la pena di morte e l’America no. In Europa si è formato prima lo stato, poi è emersa la razionalizzazione burocratica e infine è cresciuta la partecipazione popolare. In America la sequenza è stata inversa, con il risultato che la politica della pena di morte è stabilita localmente ed è difficile cambiarla a livello nazionale avendo contro l’opinione pubblica di base e un’antica tradizione di comunità.

Stevens ha scritto che nel 1976 aveva votato a favore della costituzionalità della pena di morte perché pensava che sarebbe stata applicata in modo equo e non discriminatorio, giusto e non arbitrario, senza pregiudizi e non sulla base del colore della pelle della vittima o del reo. Trent’anni e 1.233 esecuzioni dopo, Stevens ricorda che la sentenza del 1976 consentiva un uso cauto e limitato della pena di morte. Con il tempo, però, la Corte Suprema ha allentato le restrizioni previste nel 1976 fino a riammetterla ad ampio raggio. Le sentenze di condanna a morte, secondo Stevens, sono fortemente discriminatorie. In alcuni stati gli assassini afroamericani vengono condannati alla pena capitale più frequentemente dei bianchi. La pena capitale, inoltre, è più facile che sia comminata nel caso in cui la vittima è bianca, invece che nera. «Un evocativo promemoria dei linciaggi razziali un tempo prevalenti al sud», ha commentato Stevens.

Anche le procedure sono discriminatorie, aggiunge l’ex giudice supremo. Le regole per la formazione delle giurie, per esempio, sono state riscritte con l’avallo della Corte Suprema nel 2007 per rendere più facili le sentenze capitali, consentendo l’esclusione dalle giurie popolari delle persone che si oppongono in linea di principio alla pena di morte. Un altro fattore, scrive Stevens, è l’inaffidabilità della pena capitale. Dal 1973 sono stati 138 i detenuti assolti e poi rilasciati dal braccio della morte.

I numeri aiutano a capire meglio il contesto dell’applicazione della pena di morte in America. In 15 dei cinquanta stati la pena di morte non è prevista nei codici. Nei 35 che la prevedono sono 23 gli stati che condannano a morte, ma non eseguono la condanna, gli altri ogni tanto vanno fino in fondo. Nelle carceri americane ci sono 3.261 condannati a morte.

Quest’anno sono stati giustiziati quarantacinque detenuti in dodici stati (17 in Texas, 8 in Ohio, 5 in Alabama, 3 in Virginia e Mississippi, 2 in Oklahoma e Georgia, uno a testa in Louisiana, Florida, Arizona, Utah e stato di Washington).