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 2010  dicembre 13 Lunedì calendario

Fratelli d’Italia l’Italia si canta - Radamès! Radamès! Fiol d’un can de Radamès! / Dove te se’ mai scondù? / L’è chi, l’è scià, l’è lì, l’è là / L’è sotto el pont de San Damian

Fratelli d’Italia l’Italia si canta - Radamès! Radamès! Fiol d’un can de Radamès! / Dove te se’ mai scondù? / L’è chi, l’è scià, l’è lì, l’è là / L’è sotto el pont de San Damian. / L’è lì ch’el fa la legna / Dis che ’l vegna a far l’amor. / Celeste Aida, forma divina, / Battemegh i man, / Cia-ciach, cia-ciach». Fino a metà Novecento, si cantava così nelle osterie lombarde, con voce e fisarmonica, bevendo e ballando. Radames e Aida non avevano bisogno di presentazioni: tutti sapevano - sanno? - chi erano. Nei teatri napoletani andavano in scena parodie del Trovatore e per dare al pubblico un’idea dell’acuto di Manrico mentre canta «Di quella pira», si esagerava: «Ca ce vò nu treno a vapore pe tenerlo accussì a lluongo!». Il melodramma è stato la forma d’arte più popolare, lungo il periodo che ha visto delinearsi e realizzarsi l’idea della nostra nazione. Secondo Fedele D’Amico, le opere di Verdi hanno rappresentato «il solo fatto socialmente unitario che l’arte italiana dell’Ottocento abbia conosciuto». Massimo Mila va più in là e, raccogliendo l’intuizione di Giuseppe Mazzini sul ruolo svolto dalla lingua dei libretti d’opera («in tutti i teatri si cantava italiano prima ancora che esistesse l’Italia»), sostiene che «il rapporto di filiazione tra Verdi e l’Italia va dall’artista alla nazione e riguarda assai più lo spirito che i sensi». Frase azzardatissima: sono state le opere verdiane, almeno fino a Aida , il luogo dove si materializza lo spirito della nazione che doveva venire? Davvero l’Italia è stata, prima che un’espressione politica, una realtà musicale, spettacolare? L’imminente anniversario sollecita riflessioni sul ruolo svolto dalle arti nell’immaginare e ribadire la nostra identità nazionale. Se ne è parlato anche durante «La nazione vissuta, la nazione narrata», il convegno promosso a Cortona da Fondazione Feltrinelli, Accademia Nazionale di Santa Cecilia e Istituto Gramsci. L’incontro si è snodato tra «storiografie, memorie e rappresentazioni dell’Italia Unita nell’Italia repubblicana»: opera, letteratura, teatro, cinema, televisione hanno tessuto, dal Risorgimento a oggi, una trama tenace, capace di dare «spirito e sensi», parole, suoni, immagini, all’«italianità». Per quanto riguarda la musica, un contributo ampio e documentato, di grande utilità di consultazione, viene ora da La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi , in uscita da Donzelli (pp. 525, 33). Ne è autore Paolo Prato, che non pone confini alla propria indagine: per musica intende tutta la musica, dalle bande a Bocelli, da Verdi ai cantautori, dai primi inni dei lavoratori alle canzoni della protesta giovanile e operaia, dai rulli di cera all’iPod. Creazione, distribuzione, condizionamenti del mercato, sono raccontati senza distinzione di generi, con abbondanza di dati e di citazioni. La ricerca di una possibile identità musicale italiana porta a individuarla «nel privilegio di melodia e cantabilità»: esito prevedibile e tuttavia, soprattutto alle orecchie di chi ci guarda e ascolta da lontano, ancora innegabile. Per quanto riguarda l’opera lirica, Prato ribadisce la sua vastissima diffusione (1055 i teatri attivi a fine Ottocento!), che costituisce una realtà di primo piano anche dal punto di vista economico e occupazionale. E tuttavia, le prime decisioni politiche dello Stato unitario segnano una presa di distanza: nel 1867 i teatri vengono ceduti dal governo centrale ai rispettivi Municipi, che hanno la «facoltà», ma non l’obbligo, di provvedere loro la «dote». Prevale una politica del non-intervento, tipica dei governi liberisti, che non tarderà ad avere conseguenze: alcuni teatri chiudono, altri riducono la loro attività. Altrettanti però ne nascono: la «domanda» di opera e di musica rimane altissima, mentre da parte degli Enti pubblici inizia quel gioco di promesse e di attese, di concessioni e minacce, che centocinquanta anni dopo ha certamente stancato, ma non è ancora finito. Conseguenze più gravi avrà la Legge Coppino del 1877 che istituisce la scuola primaria, e gratuita, dell’obbligo: la musica non è compresa tra le materie di insegnamento. Viene ritenuta un insegnamento tecnico ed è destinata ai Conservatori, concepiti come scuole di avviamento professionale. Soltanto nel 1962, un’ora di musica sarà prevista nell’orario curricolare della media inferiore. Oggi, sono numerosi i segnali di una rinnovata passione: nuove orchestre di buona qualità, moltissimi cori di amatori, l’avvio del tentativo di creare anche in Italia quel sistema di orchestre infantili e giovanili nato in Venezuela per lottare contro ogni tipo di disagio, i luoghi dove si fa e si ascolta musica andando al di là della ritualità delle sale da concerto. Le tante iscrizioni ai nuovi - ma troppo pochi e dai lineamenti confusi - licei musicali. Come è accaduto lungo il Risorgimento, sembra che sia affidato ancora una volta alla musica, alla sua capacità di essere un’arte socialmente aggregante ed emotivamente coinvolgente, il compito di rimettere insieme la lingua comune di una nazione confusa. Di creare un nuovo, contemporaneo, «rapporto di filiazione» con la nostra identità migliore. Il compito è arduo, ma noi lo sappiamo.