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 2010  dicembre 12 Domenica calendario

Banda Cavallero: rapine, comunismo e crocifisso - Sono entrato in galera che avevo 11mila lire in tasca e ne sono uscito con un biglietto dell’autobus

Banda Cavallero: rapine, comunismo e crocifisso - Sono entrato in galera che avevo 11mila lire in tasca e ne sono uscito con un biglietto dell’autobus. La vita. Ma mi sono salvato». Lo dice senza prender fiato, senza una pausa. Sante Notarnicola ha 72 anni e sta dietro al bancone della sua osteria, Mutenye, al Pratello, Bologna. Ne aveva 24 quando divenne il vice di Pietro Cavallero, che chiamavano Piero o Pierino, che era stato dirigente della Fgci e che faceva il tranviere, e nel bar di barriera Milano dove l’aveva conosciuto brontolava sempre che stava sprecando la sua vita. Avevano fatto insieme qualche manifestazione e Piero diceva di lui a Danilo Crepaldi che «per essere deciso lo è, l’ho visto andare all’attacco dei poliziotti in piazza Statuto». Così l’aveva preso per fare una banda che sarebbe entrata nella storia nera dell’Italia, e ci portò dentro anche un altro compagno, l’Adriano Rovoletto del villaggio Snia, operaio alle presse appena licenziato e medaglia d’oro al concorso di canto del cinema varieté Lutrario, e assieme ci misero anche quello che erano stati prima, figli di una barriera proletaria, vissuti in una cultura operaia con un linguaggio dei miti e delle gerarchie dei valori che il delitto può spezzare, ma che non cancella. Oggi Pietro Cavallero non c’è più. E’ morto di tumore, nel ‘97, e fuori dalla galera lavorava al Sermig per aiutare i disperati. Alla fine parlava sempre di Dio e degli errori della vita, e scriveva a Lopez di convertirsi anche lui. Ma si dice che l’hanno sepolto con il libretto rosso. Donato Lopez detto Duccio, il ragazzino imbarcato solo per l’ultimo colpo, quando ha scontato la pena s’è messo a fare il benzinaio in corso Giulio Cesare, a Torino. Sante ha sposato Severina che l’aspettava fuori dal carcere la sera del 25 luglio 1988. Rovoletto è ritornato da dov’era partito, nella sua casa del villeggio Snia, l’ultima casa prima dell’autostrada per Aosta. Racconta che le rapine «le avevamo fatte per fame. Io ero rimasto senza lavoro». Adesso ha il diabete, è molto malato. Quando è uscito dal carcere ha scritto una lettera a Susanna Agnelli: «Le ho chiesto di dare una chance a mio figlio, con un lavoro. La Fiat lo ha assunto». Anche lui come Cavallero è finito a pregare Dio: «Sono credente e vado in Chiesa. Se è vera conversione non so. E non so neanche dire se sono ancora comunista». Invece, chi lo è rimasto sempre è Sante. Lui dice che se non fosse diventato comunista, «l’intera mia vita non avrebbe avuto senso. Essere comunisti è l’unico modo di essere uomini». Lo ripete ancora adesso: «Ringrazierò sempre chi me l’ha insegnato. Anche se magari sento che senza quello non sarei finito in galera. Ma non ce la fai a uscire integro da un’esperienza così pesante se non hai qualcosa dentro». Sante è di Castellaneta. Suo padre lo abbandonò e lui crebbe in un orfanotrofio. Quando diventò maggiorenne raggiunse la mamma che lavorava a Torino. Fece il rappresentante sognando la rivoluzione. Adesso dice: «Ho chiuso il cerchio. Non rinnego niente, ho pagato il debito con lo Stato e quel che dovevo dire l’ho già detto. Il resto è una cosa mia, e solo io posso fare i conti con me stesso, e li continuo a fare e li farò sempre». Ma nella geometria il cerchio è la figura della perfezione, e la vita è la cosa più imperfetta che ci sia: non si chiuderà mai come un cerchio, ci sarà sempre una cosa che manca, un punto più lontano degli altri. Il fatto è che con la loro scia di morti e con le loro vite, non sono mai stati niente di comune. Sono stati, invece, la consacrazione del crimine moderno, perché nel multiforme vitalismo del miracolo economico, la banda Cavallero ha finito per marcare il passaggio verso i tempi nuovi, anche nella sua accezione negativa, rapinatori di banche fulminei, audacissimi e spietati, senza legami con la mala locale, «piovuti qui direttamente dai tempi di Dillinger e Pretty Boy Floyd», scrivevano Fruttero e Lucentini. In realtà, Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto sono talmente figli della società che sta nascendo da incarnarne lo spirito violento dal di dentro: operai delle presse, rappresentanti di commercio, bigliettai sul tram o calciatori di periferia, tutti con la loro esistenza banale come la nostra, senza i night e le donnine e la vita parallela della mala. Sono i banditi della porta accanto, che sono sempre esistiti ma che mai come questa volta raffigurano insieme, così perfettamente, l’anonimato e il fragore violento e spettacolare della società che si sta affacciando. In fondo, è normale che alla fine siano tornati quasi tutti là dov’erano partiti, in quell’alveo dell’esistenza che raccoglie il mondo dei vinti, in una casa Snia senza ascensore con i gradini di graniglia e il basilico coltivato sulla finestra che guarda le corsie di un’autostrada come si guarda l’inutile fluire della vita, o dietro a una pompa di benzina in Barriera Milano, a Torino. O qui, un bar e una pinta di birra, e il senso della vita smarrito nei sogni e nelle sconfitte. Il comunismo in fondo è come la fede dei cattolici, ammette Notarnicola, «i meccanismi sono gli stessi». Dice che scriveva poesie in carcere, ma che lo faceva solo per resistere. Lui per arrivare qui ha dovuto «fare il percorso più difficile, perché l’avevo fatta grossa. Oggi sono tranquillo con me stesso, anche se certe cose sono irrimediabili». E dice che gli riesce difficile parlare di se stesso di allora, «perché è lontano anni luce, perché sono un’altra persona». In fondo è vero. Noi cambiamo. E’ la vita che resta quella. Prendete Rovoletto: era l’unico di loro con precedenti ed era il meno portato. Nel ‘56 fu preso con due valigie rubate. Dentro c’erano 50 scarpe: tutte sinistre. Il capo della Mobile gli fece la paternale: «Non sei neanche capace di rubare! Cercati un lavoro onesto». E alla prima rapina «ansimava come un maiale», dissero i testimoni. Era la paura. Adesso sta nella sua casa sull’autostrada guardando le luci del traffico che si muovono. Non tornano mai indietro. Vanno ancora avanti. Ma è la vita che è così.