Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 12/12/2010, 12 dicembre 2010
QUEI 45 MILIONI AL PICCOLO OLIGARCA RUSSO - L’
impegno dell’ Eni con le repubbliche dell’ ex Unione Sovietica diventa sempre più articolato, tra governi, colossi di Stato e nuovi oligarchi, mentre restano sempre meno comprensibili i rapporti di Silvio Berlusconi e dei suoi amici con Gazprom, braccio secolare del Cremlino nel gas e nel petrolio. Sono relazioni personali così strette da alimentare i sospetti dell’ ambasciata americana, rivelati da Wikileaks, su interessi economici comuni tra il premier italiano e Vladimir Putin. Nei prossimi giorni, Paolo Scaroni volerà a Kiev per trattare con il ministero degli Esteri ucraino concessioni territoriali per la ricerca di shale gas, il gas naturale che si estrae dagli scisti bituminosi presenti nel sottosuolo dei bacini carboniferi. Pochi giorni prima, l’ amministratore delegato dell’ Eni aveva ottenuto analoghe concessioni in Polonia, dove userà la tecnologia della Quicksilver, la piccola compagnia americana di shale gas acquistata nel 2009. Quanto contano queste mosse? Per ora poco. L’ Eni colloca verso il 2030 gli effetti rivoluzionari dei gas non convenzionali come questo, che porterebbero alla divaricazione definitiva tra i prezzi del gas, sempre più abbondante, e quelli del petrolio, un po’ più scarso. La Federal energy regulatory commission, invece, fa ritenere più vicina la svolta, che già da due anni si avverte sul mercato spot. In un recente rapporto, l’ Authority dell’ energia Usa fa proprie le impressionanti stime dell’ Halliburton sulle riserve di shale gas nel mondo mostrando quanto siano ampie anche in Cina. E non a caso i pionieri texani del settore già hanno stipulato accordi per l’ estrazione su vasta scala con i cinesi, che vogliono allentare la dipendenza dai gasdotti siberiani. D’ altra parte, già all’ inizio del 2009 negli Stati Uniti, che già coprono il 53% del fabbisogno con i gas non convenzionali, erano stati richiesti i primi permessi per l’ esportazione di shale gas verso Corea del Sud, Giappone e Spagna, segno che i costi d’ esercizio, da molti in Italia considerati proibitivi, vanno declinando al punto da reggere i noli. Questa svolta clamorosa viene da una cultura industriale diversa da quella europea dei gasdotti e appare destinata a riaprire le tensioni tra l’ Eni, che dei gasdotti è il re, e l’ Autorità per l’ energia, che giudica l’ Eni in ritardo sulla nuova frontiera e da sempre predica, inascoltata, la separazione della proprietà di gasdotti internazionali, stoccaggi e metanodotti domestici da quella delle attività di estrazione e commercializzazione del gas, oggi tutte riunite nel gruppo Eni. Comunque sia, il gas tradizionale e la Russia restano l’ architrave della politica estera dell’ Eni. Ed è qui che vanno chiariti i punti sui quali le iniziative dei governi s’ intersecano con quelle dell’ azienda a partecipazione statale. Nei prossimi giorni, l’ Eni darà il suo benestare al cambio degli assetti del consorzio italo-russo che, investendo 5,8 miliardi dollari, ha comprato le società Arctic Gas, Urengoil e Neftgaztchnologia, titolari di immensi giacimenti di gas nella regione di Yamal, in Siberia. Di questo consorzio, Gazprom non conserverà più il 51% ma cederà il 24,9% a un oligarca, Leonid Mikhelson, che possiede Novatek, una compagnia petrolifera grande come mezza Eni. L’ Eni e l’ Enel conserveranno inalterate le loro quote del 30 e del 19%, ma l’ integrazione della componente russa segnala la difficoltà dell’ impresa. Novatek viene chiamata a bordo, in posizione comunque subordinata a Gazprom, perché ha già sviluppato suoi giacimenti nella stessa zona e dunque può aiutare a far partire le operazioni sui giacimenti ex Yukos, che sono al palo dal 2007, e cioè da quando li prese il consorzio italo-russo. Questa impresa può essere letta sia in chiave politica che economica. In chiave politica, gli americani la bollano come una prova di sudditanza dell’ Italia al Cremlino. Quelle attività, infatti, costituiscono il secondo lotto del patrimonio della gigantesca compagnia Yukos, messo all’ asta dal tribunale dopo l’ incarcerazione del suo principale azionista, Michail Khodorkovsky, il principe degli oligarchi, ufficialmente per reati fiscali, in realtà per aver finanziato l’ opposizione a Putin. Il controllo di questo secondo lotto, che comprendeva anche il 20% della compagnia petrolifera GazpromNeft, era destinato a Gazprom. Che si occupa fin dall’ inizio di tutto. Questa sarebbe la prova dell’ esproprio neocomunista o neozarista di Putin agli occhi della comunità finanziaria anglosassone e dei governi americano e britannico. In realtà, la questione è più complessa. Gli oligarchi della prima ora, tra i quali primeggiava Khodorkovsky, altri non erano che i giovani apparatnicki dell’ estinto Pcus che, all’ indomani del crollo dell’ Unione Sovietica, si trovavano a capo dei ministeri delle materie prime e dell’ industria di base trasformati in società di capitali dalla sera alla mattina. Non avendo né l’ esperienza manageriale né i denari indispensabili, ma disponendo di ampie relazioni internazionali, costoro ottennero i prestiti necessari all’ acquisto a prezzo vile di immense ricchezze dalle banche di Wall Street e della City e con i prestiti arrivarono anche le partecipazioni delle major petrolifere. Nella Russia, che nel secolo XIX faceva i pogrom, si sottolinea l’ origine ebraica di molti oligarchi. Di sicuro, fu il più grande leveraged buy out della storia. Ma non poteva durare. Con pugno di ferro tipicamente russo, Putin ha invertito il ciclo, riportando sotto l’ egida moscovita le ricchezze del sottosuolo nazionale: non troppo democratico, ma abbastanza patriottico. È in questo quadro che nel 2007 l’ Eni e l’ Enel acquistano il secondo lotto ex Yukos cedendo contestualmente un’ opzione sul 51% a Gazprom, che non voleva apparire in prima battuta per proteggere i propri capi da ritorsioni legali da parte dei soci di minoranza di Khodorkovsky in America e Regno Unito. Il parziale portage a favore dello storico alleato può far storcere il naso considerando la violazione dei diritti umani, ma non è diverso dalle operazioni fatte da Bp, Shell, Conoco e compagnia sfruttando l’ ignoranza e la corruzione del regime di Eltsin. Più interessante, e nuova, può essere la rilettura in chiave economica. Punto di partenza può essere la cifra pattuita con colui che, per alcuni mesi, avrebbe dovuto avere la quota poi finita a Gazprom, e cioè con il piccolo oligarca Grigorij Berezkin, che in extremis era uscito di scena. Si tratta di 90 milioni di dollari, la metà effettivamente versata e l’ altra metà cancellata perché lo sfruttamento di Yamal non è partito entro i due anni previsti. La transazione non appare in bilancio perché la società pagatrice, la Arctic Gas, una joint-venture con l’ Enel, è consolidata al patrimonio netto. Ma avrebbe avuto il placet del consiglio. Naturalmente, per l’ Eni e per l’ Enel, che continua ad avere rapporti con Berezkin nel settore dell’ elettricità, sarebbe una bestemmia parlare di intermediazione, parola che profuma di tangenti. Ma, vista dall’ Italia, è ben strano che Gazprom, regista dell’ intera vicenda, mandi avanti, armato di diritti di passaggio sui suoi tubi ma non dei denari necessari, un grande amico di Svetlana Medvedeva, moglie di Alexander Medvedev, già colonnello del Kgb e numero due della stessa Gazprom. La quale ripaga ad Arctic Gas 38,5 milioni dei 45 spesi per indennizzare l’ incauto. Misteri ex sovietici. Resta il fatto che l’ ingresso dell’ Eni nell’ upstream, e cioè nelle attività estrattive in terra di Russia, è un fatto storico, ancorché non privo di rischi. Un fatto storico che matura con Romano Prodi a palazzo Chigi, grazie al fallimento del tentativo di Bruno Mentasti Granelli, l’ amico di Berlusconi, di appropriarsi del 33% del margine di profitto sui 2 miliardi di metri cubi che l’ Eni, per disposizioni antitrust, avrebbe dovuto restituire a Gazprom per la vendita diretta in Italia ogni anno per 20 anni. Gazprom ha sostenuto la cointeressenza di Mentasti fin dal 2003 quando, come racconta Paolo Guzzanti in «Guzzanti vs Berlusconi», nel corso di una cena all’ Hotel Palace di Milano, l’ allora amministratore delegato dell’ Eni, Vittorio Mincato, ricevette dal suo commensale russo un biglietto con il nome del partner italiano di Gazprom prescelto da chi stava sopra di loro. Latore del messaggio, possiamo aggiungere, era Alexander Medvedev; buoni testimoni il direttore delle strategie Eni, Leonardo Maugeri, e il rappresentante a Mosca, Mario Reali. Il fatto che passino due anni prima del memorandum of understanding la dice lunga sulle resistenze di Mincato. Scaroni, che firma il contratto il 16 giugno 2005, dopo averlo sottoposto al consiglio per la presa d’ atto due giorni prima, nega di aver mai saputo nulla di Mentasti. Che emergerebbe a metà luglio per gli articoli del Sole 24 Ore, che richiama una precedente indiscrezione di Repubblica, e del Corriere, che dà conto più in dettaglio del progetto Centrex-Promgas. Il ripensamento del consiglio del 28 luglio porta Scaroni ad azzerare il contratto nell’ incontro di Mosca del 20 ottobre e ad avviare un nuovo negoziato fino all’ accordo quadro del 2006, governante Prodi. Nella seconda intesa, non c’ è posto per soci improbabili ma per le ex municipalizzate e l’ Eni acquisisce il diritto a entrare nell’ upstream russo. Curiosamente, ancora il 18 ottobre 2005, Alexander Medvedev insiste su Mentasti. Il quale tre giorni prima aveva dichiarato al Sole 24 Ore di essere lui il socio di Gazprom: con i denari di famiglia e non con quelli di Berlusconi, ancorché in queste joint-venture commerciali servano pochi capitali e molte relazioni.
Massimo Mucchetti