Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 12/12/2010, 12 dicembre 2010
RENZO ARBORE SHOW
-Fagioli, frittata, lunghissime sigarette marroni da aspirare avidamente mentre il sole freddo di una giornata di dicembre ne sfiora il lungo, nero cappello, illumina la sciarpa, rama capelli già da tempo in bilico tra il bianco e il rosso. Seduto al tavolo di un affollato bar romano in cui la processione laica: “Buongiorno maestro, come sta?” si alterna alle riflessioni, Renzo Arbore da Foggia santifica un pranzo da bracciante pugliese di inizio ‘900. Attore, regista, musicista, scopritore di talenti, inventore di trasmissioni radiotelevisive che hanno inciso in profondità nell’immaginario collettivo. Il segreto era aprire una finestra sul suo mondo musicale, da “jazzista della parola”, un faro acceso sui tanti zingari incapaci di dormire, senza indirizzo o direzione che non fossero quello che Arbore definisce sinteticamente: “cazzeggio”. Ora che gli anni sono 73 ma il nomadismo ne infiamma ancora le giornate, Arbore fa quello che ha sempre voluto fare. Programmi e libri, come quello scritto con Marsiglia e Missaglia (Come si ride a Napoli, Baldini e Castoldi, 20,90 euro, tomo più dvd), ricco compendio letterario e visivo sulla canzone umoristica napoletana. Un pezzo della sua vita. Con l’orchestra italiana, da vent’anni, Arbore porta in giro per il mondo lo swing smarrito di un’epoca lontana. “Guardo indietro perché sono futurista dentro”.
Prego?
Da un po’ di tempo, mi accusano di rivolgermi sempre al passato invece di proiettarmi sul futuro. Di questi tempi, il termine rischia di essere equivocato. La prego di distinguere.
Cosa?
Il futurista che c’è in me da quello che anima le passioni di Italo Bocchino. Nella mia ricerca storica sulla canzone napoletana sono partito dal commendator De Angelis.
E dunque?
Rodolfo De Angelis è inventore della canzone umoristica partenopea. Pochi giorni fa gli abbiamo persino intestato la discoteca di stato in Via Caetani a Roma.
La via in cui nel maggio ‘78 venne ritrovata la R4 con il corpo di Aldo Moro.
Ai tempi dell’Altra domenica, un circo pomeridiano in onda sulla prima rete Rai tra il ’76 e il ’79, in cui convivevano felicemente Benigni, Isabella Rossellini, Nichetti, Andy Luotto e tantissimi altri, ci fu un momento in cui le Br pensarono di mettersi in contatto con noi.
Ne è sicuro?
Me lo disse anni dopo Adriana Faranda, avevamo la prima linea telefonica diretta con gli spettatori.
Un passo indietro. Quando incontrò Napoli?
Mia madre, di cognome, si chiamava Cafiero, erede di Carlo. Un po’ anarchico, in fondo, sono sono anch’io. Mio padre era foggiano ma aveva studiato a Napoli, e d’inverno quando il vento spazzava la Capitanata senza pietà, chi poteva permetterselo svernava in Campania.
Continui.
Quando mi iscrissi all’Università per studiare giurisprudenza, 7 anni di leggi ripetute a memoria per strappare una laurea, scelsi Napoli preferendola a Roma, che all’epoca pareva la culla del peccato, della perdizione senza ritorno.
La vita sul lungomare?
Una stanza in una casa trafficata, le serate a tirar tardi nei locali suonando, le tasche vuote. Dopo due giorni un conoscente mi portò a cena con Roberto Murolo. Un colpo di fortuna. Per lui avevo un’ammirazione straordinaria. Con Roberto ci ritrovammo in tv.
Come andò?
Lui era già un po’ immemore, facevamo gli sketch, gli fornivo le battute nate nelle serate con Marsiglia, Italo Ormanni e Giovanni Falcone. Durante la sua breve permanenza romana, giocavamo. Il ludus era “A domanda risponde”.
Spieghi.
Il giudice domandava al cantante come erano andati i fatti e quello rispondeva in rima. La tradizione napoletana rischiava di essere dimenticata. Se non l’avessi riscoperta io esportandola a Nord, non l’avrebbe fatto nessuno .
Idee originali la visitano spesso.
Accadde anche con Il clarinetto a Sanremo nel 1986. La canzone umoristica era stata dimenticata e certi nomi come Rabagliati e Natalino Otto, subivano lo stesso destino. L’oblio, in generale, mi terrorizza.
Davvero?
Per me il recupero è tutto. Vado nei mercatini e colleziono qualunque cosa, compulsivamente. I 78 giri ormai inascoltabili.
Si ferma ai dischi?
Ho due collezioni di oggetti di plastica. Dal braccialetto, al Cremlino, via Taiwan, negli anni ‘80 ci fu un’invasione di stronzate. Forchette con la manovella per prendere gli spaghetti, cucchiai per rubare nel piatto del vicino, tulipani che si accendono all’improvviso. Ho speso un capitale. Li ho tutti. Tra le radio accese e gli oggetti, casa mia sembra un museo en plein-air della follia.
Chi la conosce la descrive pigro.
Non sanno che faccio troppe cose. Guido un’orchestra che fa 70 serate all’anno. Catania, Buenos Aires, domani chissà. Ragazzi che non posso e non voglio mollare. Grazie alle nostre peregrinazioni musicali, mangiano 40 famiglie.
La pigrizia, dicevamo.
Non è vero, faccio ciò che mi convince. Continuo a inventare televisione nella nicchia più remota che ci sia, Rai International e l’ozio, se proprio lo vuole sapere, non è il padre ma il nonno dei vizi. E’ lì che nascono le grandi idee. Racconta molto l’ozio se lo sai ascoltare, ti ricarica. Prenda Quelli della Notte.
Grande successo popolare, share altissimo, confusione organizzata.
Andò così. I sovietici mi invitarono in omaggio ai voluminosi trattati di amicizia tra i due popoli a partecipare ospite a una crociera con fini pubblicitari. “Porta chi vuoi, dicci solo quanto soldi vuoi”.
Si imbarcò?
Non volevo andare, poi mi lasciai convincere. “Non desidero denaro, ma vengo con qualche amico?”. Ricevuto l’assenso, iniziò la rumba.
Il Caos?
Il viaggio, per chi lo aveva organizzato, divenne una spedizione punitiva. Ci presentammo in 40. Pianisti di piano bar, saltimbanchi, amici. Laurito, Telesforo, Luotto, Sylvia Koscina, Catalano, Sergio Leone. Invademmo i pontili e le sale da ballo di napoletani.
Qualche aneddoto?
Ci divertivamo a suonare nottetempo, improvvisando parodie con i russi a guardare attoniti. Il meraviglioso prologo di Quelli della Notte.
Lo diceva Neruda che di giorno si suda.
Rispondeva Picasso io di giorno mi scasso. (Ride). Fa parte del mio cotè intellettuale. (Ride). Scrivere testi spiritosi, lieti, è un retaggio della vita che ho vissuto e delle storie d’amore che ho avuto. Mi hanno arricchito, anche se sono state 3 o 4.
I biografi dicono di più.
E raccontano sciocchezze. Con alcune ragazze di allora sono rimasto in buoni rapporti.
Nomi?
Mariangela Melato. Fu lei a por-tarmi a diretto contatto con il mondo del cinema.
E i suoi film. Per il Pap’occhio del 1980 finiste abusivamente alla Reggia di Caserta.
Fu incredibile, dormivamo sui baldacchini dei nobili, quando il film uscì, il sovrintendente che si era adoperato per i permessi ebbe una sincope.
Difficile biasimarlo.
In effetti. Io e Moana Pozzi, i rattusi, che uscivano da dietro la spalliera del letto di re Ferdinando, ci siamo divertiti.
Perle sottovalutate?
Un vecchio processo a Sanremo con Banfi. Il Cavalier Berlusconi mi scrisse un telegramma “Mi diverte molto”.
Poi passò alle offerte.
Provò in tutti i modi a portarmi via dalla Rai. Fui l’unico a non farsi proporre il cosiddetto contratto miliardario.
E certe battute dei suoi programmi?
Cose come “Non capisco ma mi adeguo” erano farina del sacco di Ferrini, anche se il personaggio del comunista integralista fu una mia idea.
Vede ancora qualcuno dei pirati di allora?
L’altro giorno con Maurizio siamo saliti su un palco e abbiamo improvvisato un Bersani indimenticabile. Ferrini fa gli stessi ragionamenti del segretario Pd: “Quando piove, piove per tutti”. Il linguaggio di Bersani mi provoca una tenerezza incredibile. Comunque, con Ferrini abbiamo un progetto.
Esponga.
Stiamo mettendo a punto, su proposta di Calderol, la corsia per meridionali. Accanto all’Autostrada del sole, una corsia in terra battuta solo per loro. Possono suonare la fisarmonica, allattare i bambini a seno scoperto, salire sugli alberi, giocare a carte, vendere ‘nduja, oggetti sottobanco. (Ride).
Chi le manca oggi?
Gente come Tenco. Io e Luigi ci volevamo bene. Quando si uccise nella città dei fiori c’ero anche io. Andai a trovarlo in camerino.
Di cosa parlavate?
Lui componeva soprattutto a sfondo protestatario. Una volta venne da me: “Renzo ho fatto una cazzata, questa può piacere solo a te”. Era Lontano lontano. “Hai scritto un capolavoro”, gli dissi. Però guardi, cambiamo argomento, altrimenti finiamo per dare ragione a Benigni che dice spesso: “Anche Arbore ha le sue belle malinconie”.
I grandi cantanti italiani?
Jannacci, Conte, geni puri. Io amo chi fa dell’invenzione linguistica un’arte come fece Giustino Durano: “Quando la mamma prega nella camera, il suo figliolo gira la metropoli”. L’avvocato invece lo tenni a battesimo in tv, cantava una canzone sull’emigrazione di un napoletano in Lombardia: “Naufragio a Milano”. Faceva così: “Terrone vuole dire suonno, vuole dire paese volato via, vuole dire nostalgia”. E’ un bel sentimento la Nostalgia.
Ogni tanto la assale?
La mia filosofia è racchiusa in un proverbio argentino: “Nadie te puede quitar lo bailado”. Nessuno può cancellare ciò che abbiamo danzato. Guardandosi indietro, ora che ho superato i settanta, è piacevole farsi abbracciare dal ricordo. Chi ha fatto l’alba cantando La casetta in Canadà con Troisi non può essere scontento.
E domani?
Il mio futuro è vichiano, prima o poi, il corso e il ricorso si verificano. Abbiamo rivoltato la frittata tante volte in Italia, speriamo di farlo ancora, individualmente e collettivamente. Confido nell’imponderabile.