Salvatore Mannuzzu, Avvenire 12/12/2010, 12 dicembre 2010
PASTORI, IN TRANSUMANZA VERSO L‘ERA GLOBALE
Maurice Le Lannou, maestro di queste cose, insegnava che in Sardegna la geografia ha sempre pesato in modo insopportabile sulla storia. La lunga, contraddittoria peripezia dei sardi si è sempre risolta in un conflitto tra le loro domande di vita e i vincoli, durissimi, dell’ambiente fisico. È così che i sardi sono diventati quelli che sono, impiegandoci millenni. Questa dinamica si è svolta in una misura peculiare dentro l’universo dei pastori: tanto da restringerne i margini di libertà quasi fino a negarli. Quasi: perché il punto di vero interesse sta in quanto è successo dentro quei ristretti margini di libertà relativa; come si è convissuti col crudele genio dei luoghi, o addirittura come ci si è ribellati a esso – se non altro, con la qualità delle sconfitte umane. E nessun sardo è mai stato totalmente estraneo all’universo dei pastori – al «noi pastori», qualcuno diceva. Anzi, se in Sardegna esiste una cosa comune a tutti, in fondo a vicende tanto diverse, è nel «noi pastori» che bisogna cercarla. Posso dire della mia esperienza, tentando su di essa un inizio di riflessione.
Ho vissuto parte dell’infanzia in un paese industrioso del Nord Sardegna, ben lontano dalle «zone interne». Lì ho frequentato, negli anni ’30 del secolo scorso, alcuni anni delle scuole elementari; e ricordo d’aver visto una volta, fra le bancarelle e i lumi ad acetilene della festa patronale, un bambino sconosciuto: molto diverso da me e dai miei compagni, anche dai più poveri. Un bambino che aveva i capelli lunghi fino alle spalle: nerissimi e come mai pettinati, una specie di selva – allora era impensabile che un maschio portasse i capelli lunghi. Ma ancora di più mi aveva stupito di quel bambino, più o meno mio coetaneo, qualcos’altro: una diversità profonda, quasi radicale. Mi era sembrato – come dire? - una specie di animale strano; di animalino selvatico, dagli sguardi spaventati e insieme temerari. Era un piccolo servo pastore, che non aveva mai frequentato una scuola – analfabeta a vita, dunque – e consumava la sua infanzia in non so quale salto sperduto, alle prese con un gregge di pecore o di capre; con l’unico conforto a sera del fumo che si addensava nel buio d’una capanna di frasche. Non so bene se allora io fossi capace di stabilire un nesso fra questo bambino e un personaggio ormai di stanza nel paese: un vecchio che s’inoltrava per i vicoli selciati, vittima di mai stanchi dileggi, barcollando e agitando un rozzo bastone, mentre emetteva urli di richiamo a un gregge immaginario; a un gregge che non esisteva più, e comunque da anni e anni non era più affidato alle sue cure. Era questo un servo pastore in disarmo. Solo molto più tardi seppi per caso che quando era morto avevano dovuto tagliargli via col trincetto i logori scarponi chiodati: antica opera d’un ciabattino di paese e parte del suo salario di servo pastore; non era stato possibile sfilarglieli dai piedi. Tuttora mi pare che questo fatto esprima il senso della condizione di quell’uomo e insieme della sua esistenza: una condizione incancellabile che si era confusa con quell’esistenza. Come si confondeva con l’esistenza d’ogni pastore, riempiendola tutta: tanto da divenire biografia; l’unica biografia di molti esseri umani, in Sardegna. E potrei continuare a lungo in questo inventario, attingendo dalla memoria. La realtà è che nella mia formazione quel mondo di pastori ha influito in modo considerevole. Tanto da lasciarmi una sorta di – incompleto, mutilato, distaccato, contraddittorio – senso d’appartenenza. Senso d’appartenenza che credo comune a molti sardi: anzi proprio, in genere, dell’intero immaginario sardo. Salvatore Satta ha scritto nel Giorno del
giudizio che tutti i sardi guardano a Nuoro, capitale delle Barbagie dei pastori, come a una seconda patria. E a me pare che ciò resti in qualche modo vero. Sì, quella seconda patria ha dilatato i suoi confini ben oltre gli insani montes delle Barbagie. L’anima più segreta della Sardegna viene dal «noi pastori»: l’anima che i sardi vogliono avere, anzi ritengono sia la loro; l’identità che i sardi evocano per sé ogni giorno, sino a renderla consistente e vera. Ed è vero che da quel mondo del «noi pastori» ci separano non poco tempo e non poche cose; ma le culture degli uomini sono vischiose, tardano a scomparire: sopravvivono all’estinzione dei fatti che le hanno generate come sopravvivono tutte le sensazioni d’un arto amputato. Quale fosse, quel mondo, bastano a dirlo i due testimoni che ho evocato poc’anzi, traendoli dalla memoria: il bambino selvatico e il vecchio un po’ demente, pastore d’un gregge che non esisteva più. Era un mondo terribile, rendeva terribile la vita di chi ci viveva dentro e imponeva gesti terribili. La sua più profonda e più completa ricognizione è stata compiuta da uno studioso scomparso prematuramente nel 1969: Antonio Pigliaru. Egli mostra la vita del pastore sardo – ora citerò le sue parole precise – come un continuo «stato di necessità», tra «miseria strutturale», solitudine e insicurezza: la vita «peggiore che possa essere vissuta» – triste die ch’aspettamus sos ch’in su mundu bivimus , triste giorno che aspettiamo noi che viviamo al mondo. Il pastore è solu che fera, solo come una bestia selvatica, dentro «la disperata solitudine della natura». Questa è stata la vita dei pastori sardi in un periodo storico molto lungo – ora concluso, consumato: diventato altro. Il pastore reggeva allo «stato di necessità», nella cui morsa era preso, trasformando la sua esistenza in resistenza: con una lotta «a mani nude». Ma per sopravvivere doveva valere: non solo «essere forte» ma «saper essere forte», non solo «essere ladro» ma «saper essere ladro» (ladro anche di uomini). S’instaurava così l’etica dell’abilità: quel mondo poteva risparmiare solo su balente, s’abile.
Ma il balente se voleva reggere, se non voleva diventare fera , si doveva dare delle regole. Regole sue, regole del «noi pastori», giacché in quel terribile mondo naturale le regole dello Stato arrivavano solo in forme controproducenti: stolida repressione di sempre, confino di polizia.
In quel terribile mondo dove il mero fatto – su connottu – tendeva a farsi legge, la legge che il «noi pastori» si dava imponeva la vendetta – la ragion fattasi – come prova del valore più alto, del più essenziale requisito: essere balente ; ma insieme assegnava alla vendetta dei limiti, con precetti dotati d’una loro «complessità», d’una loro «civiltà». Si contrapponevano così due ipotesi di società: quella moderna, dello Stato, improntata a regole astratte di solidarietà generale – spesso solo nominali, purtroppo – e quella del «noi pastori»: nella quale la solidarietà vigeva unicamente fra custrintos (fra parenti, vicini, amici...) e per il resto ognuno rimaneva solo, abbandonato al suo destino. Che cosa poi è successo, a quel mondo? Dove è finito, cosa ne resta ai giorni nostri? Cosa sono diventate le vite dei pastori? Già il «noi pastori» di Antonio Pigliaru era parte d’una «società non omogenea», «in crisi» e in via di mutazione. Però non erano cambiate le due caratteristiche più significative del «Codice della vendetta». Restava l’estraneità alle logiche di solidarietà generale dello Stato moderno. E restava la situazione – oggettiva e soggettiva – che produceva quell’estraneità: «Le forme con cui la civiltà moderna penetrava in Barbagia» non erano «capaci di realizzare riforme morali» adeguate, creando «nuove condizioni oggettive di vita e di lavoro». A voler arrivare con un salto dentro i giorni nostri, bisogna riconoscere che quella estraneità e quella situazione, oggettiva e soggettiva, più o meno restano tali e quali. Ma insieme sono accaduti dei veri e propri ribaltamenti. Si è accentuata, fin quasi a precipitare, la «doppia formazione culturale» del pastore barbaricino; si è acuito in modo lancinante il «conflitto bilinguistico».
Intanto la pastorizia nomade è finita, almeno nelle forme d’un tempo: il pastore non è più solu che fera ; o se una solitudine gli rimane non è più quella del confronto «a mani nude» con l’inclemenza totale della natura. Giacché lo scenario del mondo – del mondo intero, il pianeta, l’altra delle due lingue che il pastore adesso parla – manda segnali d’una profonda crisi di senso. Sono intervenute due novità fondamentali. C’è da un lato la perdita perfino simbolica della scommessa dell’industrializzazione («in fabbrica con i gambali di pastore!»). E nella Sardegna centrale sono insufficienti le alternative, gli sbocchi: economici ma non solo, anche sociali, culturali.
Le campagne e i paesi cacciano via la gente, si svuotano secondo proprie logiche. Il vecchio mondo è sconquassato; e poco si vede – certo non è a portata di mano – un nuovo mondo credibile, nel quale valga la pena di abitare.
D’altro lato si afferma la religione dei consumi, diviene religione e vita prevalente. Non si tratta solo della televisione o dell’universo della réclame, che è l’universo televisivo per eccellenza; ma certo la televisione è il veicolo principe, diciamo la tribuna di tutto: e ancor più la metafora di tutto. E che ne è, a questo punto, del «Codice della vendetta»? Qual è la sua eredità ora che alla solitudine della fera , accerchiata dalla natura ostile, si sostituisce quest’altro sbaraglio? L’antico codice non esiste più: l’apparato dei suoi valori – delle sue «complessità», della sua «civiltà» – salta in aria: letteralmente scoppia, impazzisce. E chi viveva sotto quel codice oggi si trova privo dei riferimenti che, bene o male, orientavano le esistenze, costituivano identità collettive e individuali. Oggi le passate identità si disfano e altre identità faticano a sostituirle; e all’antica legge della neutralità, del silenzio, del rifiuto tarda a succedere nelle coscienze un’etica della solidarietà generale, un senso del vincolo che unisce tutti gli umani – e s’intende tutti i cittadini. Resta allora, agli orfani del «Codice», la legge della neutralità e del chiamarsi fuori da ogni idea di Stato, dell’insofferenza di qualsiasi limite pubblico. Resta: ma in un vuoto che minaccia d’essere totale. Dov’è infatti il balente d’antan? Ubbidiva, abbiamo visto, a un modello morale, dentro una situazione di necessità; oggi non solo quella necessità, ma anche le abilità, le giustificazioni che essa dava, i saperi che essa ispirava sono perduti, se la religione dei consumi esaurisce il moderno, sconvolgendo paesi, case: sa bidda, sa domo . Il balente non è più abile, diventa isconcadu, senza testa. E allora la forza o la simulazione della forza può diventare mera violenza; e qui e là scoppiare gratuita, comunque sproporzionata, inedita nella sua essenza. Mentre attorno il contesto collettivo è in non piccola misura quello del vecchio silenzio e del vecchio rifiuto; e dura uno spaesamento terribile, nello iato fra antichi codici che non bastano più, in cui non si può credere più, e nuovi codici che non fanno decisivi passi avanti.
Come concludere? Secondo il profeta Geremia esiste un Resto d’Israele destinato alla salvezza.
Così ci piace pensare che un Resto di sardi, e di «noi pastori», alla fine possa trovare scampo, superando il gorgo e il guado, alto sulle teste qualcuno dei superstiti Penati e al seguito le greggi di pecore, la musica immortale dei campanacci. Non c’è speranza in Sardegna senza un tale Resto; e non è vera speranza se non si porta dentro anche il «noi pastori». Ma sempre più i pastori sardi vivono – come tutti – in un mondo dotato di molte anime – alcune assai vive e proprie anche di loro pastori; in un mondo la cui complessità continua a crescere: e certo non è un mondo chiuso e immobile. Si muove, invece: benché non sia facile capire in quale direzione, le spinte sono contraddittorie. La peripezia di quel mondo – del nostro mondo – è in corso, e questo che stiamo vivendo è solo un punto di passaggio d’una storia che solo altri potrà dire, dopo, dove ha portato, come è finita – a parte che, sappiamo, non finisce mai.