Massimo Gaggi, Corriere della Sera 11/12/2010, 11 dicembre 2010
CHI HA VINTO E CHI HA PERSO A SETTE ANNI DAL CRAC DI PARMALAT
Sarebbe facile interrogarsi oggi su quale azzardo, più da frequentatori di casinò che da ex Bot-people, animasse quei 130 mila creditori del re del latte Uht, Calisto Tanzi. Senza dimenticare il sistema bancario che nella slot machine di Collecchio ha rischiato di giocarsi la propria reputazione — cioè tutto, nella finanza. Ma basterebbe riandare a guardare quel magnifico film documentario canadese diretto nel 2003 da Mark Achbar e Jennifer Abbott, The corporation, per ritornare al clima che ruotava intorno alla Parmalat pre crac: certo, era un filmato critico nei confronti delle multinazionali, ma di fatto Tanziland era l’unica società italiana che compariva tra i grandi brand della terra. Era una «corporation». In Sudafrica, ancora nel 2004, la gente pensava si trattasse di una multinazionale sudafricana. Beppe Grillo docet. O, almeno, avrebbe dovuto. Eppure al tempo, oltre ai rendimenti allegri, ai rating stellari e alla rodata macchina clientelare sia locale che nazionale — che pure c’erano — a convincere risparmiatori e consumatori c’era anche una storia di testimonial che andavano da Niki Lauda al giovane Ronaldo. E il Parma Calcio che spopolava. Quale migliore ricetta per mettere il timbro di affidabilità su un brand in Italia che portarlo al gol?
Un crac di queste dimensioni — la possiamo definire, ahinoi, la Enron italiana — ha lasciato rovine morali e materiali. È stato un terremoto non solo per il gruppo. E non solo per il sistema bancario italiano. Le scosse sono arrivate fino alla reputazione e all’immagine stessa del made in Italy e dell’Italia. Il crac ha rischiato di generare una fabbrica di crac: da Collecchio, ai bilanci degli istituti, fino alle aziende con il vessillo italiano all’estero e ai budget di intere famiglie. In parte è stato dolorosamente così. Eppure a sette anni dal fallimento — va scritto con tutte le attenzioni del caso — ci sono sconfitti, sì, ma anche sopravvissuti e qualche vincente.
Partiamo dagli sconfitti: gli azionisti della vecchia Collecchio. La contabilità è crudele, ma aiuta a comprendere. A loro è andato lo zero per cento. Nulla. Caso controverso certo: il rischio di impresa che ci si accolla con l’acquisto di un titolo in Borsa comprende anche documenti accettati dai revisori che risulteranno poi fatti con il «copia e incolla» della Microsoft? Il risultato è che quei 1,7 miliardi di capitalizzazione che ancora risultavano a Piazza Affari nella seconda settimana di dicembre del 2003, mentre il titolo era sospeso in attesa di good news mai arrivate, sono andati bruciati interamente. Poi, ci sono gli obbligazionisti: sconfitti per definizione. Soprattutto i grandi. Hanno perso parte del capitale. Ma, almeno per i piccoli, ha funzionato la macchina dei recuperi parziali. Come riferimento possiamo prendere la famiglia di bond più capillarmente diffusa nelle tasche degli italiani, la Parmalat Finance Corporation Bv. Per loro l’ingegnerizzazione del concambio tra bond e nuove azioni ha permesso recuperi fino al 40% grazie ai dividendi distribuiti in questi anni dall’amministratore delegato, Enrico Bondi (780 milioni) e al meccanismo dei 500 warrant pensato proprio per alzare i rimborsi sotto una certa soglia. Mille euro sono diventati così 400. Ma, per intendersi, il calcolo non è moltiplicabile e 100 mila euro non sono 40 mila. Per avere un termine di confronto il crac Federconsorzi ha risarcito il 40%. Quello dei Tango bond della repubblica Argentina circa il 33%. Quello della Cirio ancora oggi ha dato solo un piccolo acconto. A maggior ragione possono considerarsi meno «sfortunati» i 40 mila che sono riusciti a costituirsi parte civile nei processi e che a quel primo 40% hanno potuto aggiungere un altro 30% grazie alle transazioni concluse da Carlo Federico Grosso con le banche rinviate a giudizio. Il loro recupero è arrivato a 700 euro.
La lista potrebbe continuare. Tra le semi sconfitte o semi vincenti a seconda dei punti di vista ci sono le banche, che hanno dovuto sborsare 2,1 miliardi in revocatorie e cause per danni ma che alla fine — a torto o a ragione — sono uscite pressoché indenni dal pantano. Tra i vincitori lo stuolo di avvocati che ha incassato parcelle milionarie. Bondi stesso (32 milioni di premio per il risanamento). E gli hedge fund entrati dopo il crac (hanno 1,4 miliardi di cassa nella società). Ma — bella sorpresa — tra i vincitori ci sono anche i dipendenti emiliani: anche se per via delle cessioni nel mondo la forza lavoro è passata da 36 a 14 mila persone, in questi anni nello stabilimento di Collecchio non è stato licenziato né mandato in cassa integrazione nessuno.
Massimo Sideri