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 2010  dicembre 11 Sabato calendario

IL PCI, LE TAGLIATELLE, VALENTINO. SE ANNASPA LA CITTA’ DEI MITI

Il modello della tagliatella perfetta è lì, esposto come un cimelio nella sede della Camera di Commercio. Tagliatella tutta d’oro. Chi vuole cimentarsi nel tentativo di raggiungere quella perfezione sa che la delicata e meravigliosa creatura deve avere 7 millimetri di larghezza da cruda e 8 da cotta. Il guaio è che a Bologna si son persi il modello del sindaco perfetto. Quello che, a partire dal mitico Ventennio di Giuseppe Dozza, si era fatto la fama, meritata o meno che fosse, di essere impareggiabile nella gestione della cosa pubblica. Cementando un rapporto così forte tra la città e il Pci e i suoi eredi che quando alla fortezza diede il suo placido e rassicurante assalto Giorgio Guazzaloca, certi vecchi compagni come il Cesare Penazzi, prendendo a paragone la Fontana del Nettuno del Giambologna, avevano scommesso: «Prima che il “ Guazza” vinca qui è più facile che la statua del Gigante canti l’Aida» . Macché: il “ Guazza”, che conserva come una reliquia il nomignolo di «Copa-oche» ricevuto da Sergio Saviane, vinse. E il Gigante non cantò l’Aida. Non ci sono più le certezze di una volta… Anche la sacralità di Sua maestà la Tagliatella, in realtà, è stata messa in dubbio. A osare la profanazione è stata Anna Maria Cancellieri, commissario del comune dopo le dimissioni del sindaco Flavio Delbono, travolto dal cosiddetto «Cinzia-gate» . Prima di venirci, ha spiegato in un’intervista al nostro Corriere di Bologna, pensava che la città «fosse la numero uno in Italia per cultura, musica, allegria, gastronomia. E molto di tutto ciò è rimasto, però è come se si fosse addormentata» . Insomma, ha affondato: «è una città che arranca in tutti i settori. Anche la gastronomia...» . Apriti cielo! Ma come: mettiamo in dubbio la tagliatella, i tortellini, i maltagliati, i «parpadlein» e insomma tutte quelle leccornie che escono dalle mani delle «sfogline» ? Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay, consigliere regionale dipietrista, autore quando era deputato del Pd d’una proposta di legge per il riconoscimento delle «sfogline» e giurato del premio «Miss Tagliatella» , assicura che no. Che la signora Maria Scorzani, trionfatrice dell’ultimo gran premio gastronomico (la regina Rina Poletti, dopo aver vinto tre volte non partecipa più: è nella leggenda) sfoglia la sfoglia come si sfogliava nei secoli d’oro delle sfogline. Sospira, però, che «una certa decadenza del livello medio delle trattorie effettivamente, purtroppo, c’è» . Erano un mito, le trattorie bolognesi. Condensavano a tal punto l’orgoglio cittadino nei confronti del resto del mondo e in particolare dei dintorni, raccontava Indro Montanelli in «Italia sotto inchiesta» , da avere fatto nascere storie strepitose: «Ci sono ristoranti dove vige addirittura una specie di apartheid: un settore è riservato alle tavole con tovaglia per la clientela “ buona”, cioè cittadina; un altro ha le tavole senza tovaglia per quella di campagna che affluisce il giorno di mercato. Verso di esso vidi avviarsi un rustico e frusto avventore. Appena seduto, trasse di tasca un voluminoso cartoccio di banconote da diecimila, e a mo’ di tovaglia se le distese davanti, avventando sul padrone e i camerieri uno sguardo carico di sfida e di truce rancore. Dopodiché ordinò un luculliano pranzo di sei portate» . Voi capite che mettere in dubbio le trattorie bolognesi, per quanto si sottolinei la presenza di ristoranti di altissimo livello, significa affondare il coltello in una piaga. Quella del declino della città. Che è il grido di dolore con il quale da tempo il cardinale Carlo Caffarra martella nella omelia di San Petronio. Cominciò denunciando: «Questa città è al tramonto» . E da allora non ha smesso più. Il suo predecessore, il cardinale Giacomo Biffi, aveva definito Bologna «sazia e disperata» ? Lui, poche settimane fa, ha invitato i politici a rileggere S. Caterina: «Voi avete desiderio di riformare la vostra città; ma io vi dico che questo desiderio non si adempirà mai, se voi non ingegnate a gittare a terra l’odio e il rancore del cuore e l’amore proprio di voi medesimi, cioè, che voi non attendiate solamente a voi, ma al bene universale di tutta la città» . Mica facile, «gittare a terra l’odio e il rancore» . Mai come oggi, infatti, destra e sinistra sono tormentate da inimicizie, diffidenze, sospetti e ostilità intestine che appestano l’aria. Una volta, quando Montanelli scriveva che «il primo e più sostanzioso» dei vantaggi di ogni sindaco comunista era «quello di avere sempre, ai suoi ordini, una maggioranza stabile, e soprattutto ben disciplinata» , era tutto chiaro: o stavi col Pci o contro. Oggi no. A pochi mesi dall’appuntamento elettorale, gli eredi di chi plasmò quella capitale del comunismo all’italiana in grado di fornire al partito, con il resto della regione, un quarto dei voti nazionali, vivono la sensazione di non riuscire più a trovare il bandolo della matassa. Armando Nanni, il direttore del Corriere di Bologna, qualche settimana fa, ricordava il calvario delle candidature avanzate, ipotizzate, sognate, scartate, rilanciate, tramontate: «Da Prodi a Merola, De Maria e Lenzi. Passando per Lorenzo Sassoli de Bianchi, Luciano Sita, Maurizio Cevenini, Giorgio Guazzaloca, Duccio Campagnoli, Andrea Segrè. Tutto l’affetto e il rispetto per Andrea De Maria, Virginio Merola e Donata Lenzi, beninteso, ma questo cappio delle primarie del centrosinistra alla fine sta consegnando ai bolognesi una competizione elettorale che nasce asfittica, figlia di troppe incertezze» . Il solito giornalista criticone e prevenuto? Rileggiamo cosa dice la presidente della Provincia, Beatrice Draghetti: «C’è la percezione che il Pd annaspi nel trovare soluzioni, che i granai siano vuoti, che ci sia la tendenza a guardarsi nell’ombelico» . È tutto in quel verbo: la sinistra annaspa. Fiera di un passato così virtuoso che ancora oggi vive di rendita ai primi posti (ma primissima tra le grandi città) nella classifica della qualità della vita del Sole 24ore e svetta in testa a tutti in quella per i servizi, l’ambiente e la salute. Ma insieme incerta sul presente e sul futuro dopo una serie di scelte archiviate come un errore. Prima la candidatura perdente di Silvia Bartolini contro Guazzaloca. Poi quella decisa a Roma («bizzarramente» , disse D’Alema) di Sergio Cofferati, che la città elesse con lo spirito di «riprendersi il maltolto» ma che non arrivò mai ad amare, fino a vivere quasi come uno sfregio anche la scelta dell’ex segretario della Cgil, a una cena, di versare un bicchiere di vino rosso nel brodo dei tortellini. Lui, commentò Alberto Statera, «raccontò senza convincere gli stupefatti astanti, che è una vecchia e nobile tradizione contadina chiamata "Sorbir d’agnoli"mischiare il vino col brodo» . Macché: non capirono. Sbagliato infine un anno e mezzo fa il terzo candidato consecutivo con l’investitura di Flavio Delbono, travolto pochi mesi dopo dallo scandalo dei rimborsi spese spiattellato da Cinzia Cracchi, la penultima di una sfilza di mogli e compagne che mai il vecchio Dozza avrebbe immaginato, il Pd credeva di averlo trovato, l’uomo giusto. Maurizio Cevenini. Macché: neanche il tempo di vederlo trionfare nei sondaggi e il «Cev» , colpito da un attacco ischemico, confidava affranto: «Lo choc che ho avuto dopo questo malore è stato forte. Con immenso dolore rinuncio al sogno della mia vita» . Va da sé che la paura di prendere una nuova toppa, a questo punto, rischia di essere paralizzante. Tanto che, scelto infine Virginio Merola, già assessore e avversario di Delbono, il partito scottato dalle primarie milanesi vinte da Giuliano Pisapia, non ha manco più il fegato di investirci fino in fondo. Nel terrore che poi finisca per spuntarla l’outsider appoggiata da Nichi Vendola. Cioè Amelia Frascaroli. Donna generosissima, cattolica, madre di otto figli capace di trovare il tempo anche per la Caritas, amata da chi la stima per certe iniziative del tutto eccentriche rispetto alla politica e proprio perciò guardata dagli avversari come un’amabile marziana. Non bastasse, il travaglio di quello che fu il Pci è stato segnato da un episodio di enorme valore simbolico. Ricordate la «gloriosa» sezione della Bolognina dove Achille Occhetto, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, lasciò capire che il Pci avrebbe cambiato nome? Non c’è più. Al suo posto, al numero 17 di via Tibaldi, c’è un parrucchiere: «Fashion mania» . Ci lavorano dei cinesi. Shampoo, messa in piega e taglio: 8 euro. Chi vuole, può farsi fare massaggi agli olii, terapeutici, manicure e pedicure. Qualche vecchio spiritoso ci ride su: «No, glolioso Paltito Comunista non abitale più qui» . Fatto sta che il centrodestra, nonostante i sondaggi mediocri che secondo il post-missino berlusconiano Filippo Berselli lo vedono al 35%, quota che altri considerano perfino ottimista, potrebbe avere un’occasione irripetibile per andare a riprendersi la città. Solo che è ancora più dilaniato dalle guerre interne e indeciso sulle candidature della sinistra. L’obiettivo del terzo polo, accantonata l’ipotesi di riprovarci un’altra volta con «Copa-oche» («amici miei, per fare certi sport ci vuole un fisico di ferro…» ) potrebbe essere quello di provarci con qualcuno preso dalla società civile come ad esempio, nonostante lei dica «ah, no, no, per carità…» , la commissaria Cancellieri. La destra, cadute via via le altre candidature, pare concentrarsi ormai sui due Cazzola. Da una parte Giuliano, storico bastian contrario, sindacalista cigiellino sui generis, grande esperto di previdenza, amico di Marco Biagi, oggi deputato pidiellino. Dall’altra Alfredo, imprenditore, già patron del Motor Show, già presidente della Virtus pallacanestro e poi del Bologna calcio, già avversario di Delbono, perdente nelle urne ma vincitore nel dopo partita grazie alla battutaccia in tivù con la quale accese la miccia della bomba: «A proposito, mi saluti la signora Cinzia…» . Diversi in mille cose, i due Cazzola lo sono anche nell’approccio alla sfida. Giuliano, una volta uscito il suo nome, non ha «nessunissima intenzione di ritirarsi» . Alfredo, strattonato da tutte le parti, ripete che non ha intenzione di riprovarci. Alla fine, in realtà, potrebbe spuntarla la Lega. Ma come, direte: la Lega a Bologna? Umberto Bossi, ovvio, sa benissimo che solo un miracolo potrebbe fargli recuperare in una botta sola un divario storico. Tanto più che il suo candidato sarebbe Angelo Alessandri, che è di Reggio ma per mettere le mani avanti avrebbe già portato la residenza in città. O addirittura, stando a una boutade fatta con Giovanni Cerruti («Mah, vediamo... Se il territorio ci chiama...» ) il figlio del Senatur, Renzo «Trota» Bossi. Davanti all’ipotesi, c’è chi si è dato di gomito: «Più che sotto la torre degli Asinelli, coi suoi precedenti scolastici, starebbe bene sotto quella dei somari» . Ma il segretario della Lega, quale che sia il candidato, avrebbe tutto da guadagnarci. Male che vada, il Carroccio farebbe irruzione nella capitale della storica regione rossa. E una volta lì... Davanti a questi nomi Giorgio Guazzaloca, il «macellaio umanista» che con la sua vittoria finì sui giornali della Nuova Zelanda dice che per carità, è patetico fare confronti col passato. «Non li faccio più da quando un giorno dissi: "Bulgarelli è un gran giocatore”. Al che un vecchio mi liquidò: “ te ta ne mai vest Schiavio!” Così mi disse: tu non hai mai visto giocare Schiavio! Giusto. Resta l’impressione però che sia diventata una città di pigmei» . Che siano lontani i tempi di quel Bologna «che tremare il mondo fa» , squadra straordinaria che vinse un paio di scudetti e la Coppa dell’Esposizione (la Champions League dell’epoca) avendo come allenatore il grande ungherese ed ebreo Arpad Veisz destinato a morire con la moglie e i bambini ad Auschwitz e come centravanti l’immenso Angelo Schiavio, è malinconicamente ovvio. Anzi, la decadenza della città, cuore di una regione che secondo Unioncamere ha patito più di tutte dopo il Friuli la crisi di questi anni, si specchia proprio nelle difficoltà della società calcistica. Che dopo anni di umilianti retrocessioni, faticose risalite e salvezze da cardiopalma strappate all’ultimo minuto dell’ultima giornata, era finita mesi fa tra le mani di Sergio Porcedda, un cagliaritano che, a sentire le roboanti promesse, doveva essere ricco come Creso. Macché: un bidone. Sfociato in un dramma collettivo, stipendi non pagati, contributi evasi, calciatori in lacrime a chiedere un po’ di soldi perché erano a secco. E tutti appesi ai miracoli di San Marco. Vale a dire Di Vaio, il centravanti. L’unico che oggi, da qualunque parte si presentasse, sarebbe certo di essere eletto sindaco. Finché non si è riaccesa nel firmamento di Bologna la stella, che sembrava spenta, di quello che fino a qualche anno fa veniva chiamato il «Cuccia rosso» . Giovanni Consorte, l’ex uomo forte dell’Unipol che prima fu l’artefice dell’alleanza con i «capitani coraggiosi» (copyright di Massimo D’Alema) Roberto Colaninno, Ettore Lonati, Emilio Gnutti nella scalata a Telecom Italia. Poi uno dei protagonisti della stagione degli assalti bancari e dei furbetti del quartierino, sfociata nelle polemiche sull’assedio alla Bnl e l’intercettazione di Piero Fassino: «allora abbiamo una banca?» E infine chiusa da una serie di inchieste giudiziarie. Pareva finito, Giovanni Consorte. E invece, vinto anche un tumore alla gola, eccolo qua. Nella cabina di regia, con la sua merchant bank Intermedia, del salvataggio dell’amatissima squadra rossoblù. Della quale, salvo sorprese, dovrebbe diventare presidente l’imprenditore del caffè Massimo Zanetti, «Mr. Segafredo» . Dovesse filare tutto liscio, nonostante l’ostilità con cui Unipol e gran parte delle Coop assiste all’operazione, per il «Cuccia rosso» sarebbe un piccolo capolavoro. Non c’è detersivo che lavi quanto lava il football. In attesa di vedere come andranno a finire queste sfide comunali e calcistiche, Bologna sogna di riaccendere i motori con l’arrivo di Valentino alla Ducati, il gioiello motociclistico che è l’orgoglio della città. Arrivo salutato da un settimanale col titolo «È la Ducati la nuova Rossa d’Italia» . Scherzi del destino. Fino a un secolo e mezzo fa, al 1848 che vide il martirio di Ugo Bassi, al Risorgimento, quella Bologna fu, come canta Guccini, «arrogante e papale» . Fedelissima alla Chiesa. E ormai, inchiodata alla sua immagine, con chi torna a sognare la «città rossa» ? Con Rossi e una Rossa…
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella