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 2010  dicembre 11 Sabato calendario

IL CIMITERO DI PRAGA

Adesso che è rifluita l’ondata di anticipazioni, recensioni, interviste, comunicati stampa, interpretazioni e congetture in merito e demerito al nuovo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga (Bompiani, pp. 528, euro 19,5); adesso che nella classifica delle vendite Umberto Eco deve vedersela con gli Appunti di un Venditore di donne di Giorgio Faletti, e con l’ottimo, ben scritto e cucinato ricettario di Benedetta Parodi; adesso, insomma, è il momento di ragionare pacatamente su Umberto Eco romanziere.
Per dire tutto e subito: manca, a Umberto Eco, la qualità essenziale di un romanziere, cioè la capacità di inventare una storia. Egli scrive libri sui libri, da bibliofilo qual è: un romanziere racconta, interpreta e, quando ci riesce, spiega la vita; Eco sunteggia i libri che ha letto e ne compone un indigesto collage. O, meglio: costruisce un montaggio di citazioni libresche che, di romanzo in romanzo, assomiglia sempre più a una spericolata navigazione tra le voci di Wikipedia. Collage per collage, tanto vale passare direttamente al taglia e incolla. Col rischio di affidarsi alle citazioni a memoria.
Per esempio. Dal diario del protagonista: «Qualcuno ha detto che le donne sono solo un surrogato del vizio solitario, salvo che ci vuole più fantasia». Ebbene, quel «Qualcuno» è l’amato Karl Kraus in uno dei suoi aforismi che non mi piace citare. Evidentemente, Eco non poteva nominarlo perché nel 1897, anno in cui è ambientato il romanzo, Karl Kraus aveva 23 anni (Detti e contraddetti sarebbe uscito nel 1909), ma l’aforisma citato, tradotto da Roberto Calasso in persona (Adelphi, 1972) suona così: «Talvolta la donna è un utile surrogato dell’onanismo. Naturalmente ci vuole un sovrappiù di fantasia». Il significato osceno rimane ma, infrangendo la struttura di cristallo, con punteggiatura, della traduzione di Calasso, Eco, che ricordava male il testo o l’aveva direttamente tradotto (male) dal tedesco, lo declassa a battuta da bar della matricola, a volgarità goliardica. Ecco, il goliardismo è un’altra costante dei romanzi di Eco, ma i goliardismi di un semiologo di settantotto anni sono imbarazzanti, oggi che la goliardia è un ricordo polveroso del secolo scorso, e neanche delle ultime decadi. Sciatteria goliardica è alludere a Chopin e a George Sand come a «quel pianista polacco tisicuzzo mantenuto da una degenerata che girava in pantaloni».
La ridondanza
La cifra stilistica di Umberto Eco è la ridondanza. Egli scrive: «Nel frattempo Froïde [che sarebbe Freud] si era messo a ridere e aveva ordinato un’altra birra ancora». Non gli basta dire «un’altra birra», oppure «ancora una birra»: no, Eco deve ridondare con l’aggettivo e l’avverbio.
Per non parlare delle digressioni culinarie. Ecco la ricetta delle côtes de veau Foyot: «Carne spessa quattro centimetri, porzione per due s’intende, due cipolle di taglia media, cinquanta grammi di mollica di pane...» e così via fino a «continuando a inumidire con vino e brodo. Condire con cavolfiore saltato», 18 righe (dicesi diciotto) più sotto. Oppure undici righe per un «menu notturno» a base di salmone alle cipolline con carciofi al pepe giavanese per finire con la pasticceria inglese alle spezie. O altre undici righe per descrivere la salade Francilion, che parte da patate cotte nel brodo per finire con sottili fettine di tartufo, cotte allo Champagne. E non poteva mancare la ricetta completa della bagna caôda: «In un recipiente di terracotta tenuto bollente su un fornello alimentato dalla brace, eccetera eccetera», in un lungo paragrafo trafelato.
Di questo passo, altro che 528 pagine: se ne possono riempire anche cinquemilaventotto. C’è da scommettere che nel prossimo romanzo (ma l’autore ha dichiarato che questo è l’ultimo: sarà di parola?) se un personaggio dovesse cercare un numero di telefono, Umberto Eco sarebbe capace di ricopiare due pagine dell’elenco telefonico per dimostrare che Petrucci dr. Antonio viene dopo Petrucci avv. Andrea e prima di Petrucci rag. Clemente. Ma questi sono romanzi per gente che ha tempo da perdere!
La filosofia
La filosofia di Umberto Eco è tutta nel Nome della rosa (1980). È una tardiva riproposta del nominalismo (Guglielmo di Ockham è morto nel 1349) in versione scettica e relativista: la verità (quindi la realtà) non esiste, esistono solo i nomi e la loro coerenza è soltanto grammaticale. Vorrei vedere la faccia di Umberto Eco se il direttore amministrativo di Bompiani gli dicesse: «Diritti d’autore? Ma sono un nome, perché li cerchi sul conto corrente?». Nel primo romanzo, tuttavia, c’era almeno un intreccio, che ha consentito di trarne il fortunato film con Sean Connery. Poi, a partire dal Pendolo di Foucault (1988), Eco si è ingolfato nelle teorie del complotto e nelle parodie delle teorie del complotto (la parodia è il genere di chi non sa inventare e deve quindi aggrapparsi al già detto da altri), lasciando tramortito il lettore (propriamente, il lettore che non frequenta le biblioteche) a colpi di erudizione. Con L’isola del giorno prima (1994), Eco ha dato un’altra versione del nominalismo: è impossibile tracciare la mappa del mondo perché infiniti sono i punti di vista e, forse, infiniti anche i mondi, e infiniti gli ordini imposti dal creatore, per cui non resta che «seguire il gioco mutevole delle apparenze d’ordine che si riordinano a ogni nuova apparenza».
In Baudolino (2000) venne affrontato, sempre sulla lunghezza d’onda nominalistica, il tema della menzogna, che da sempre assilla Eco, tanto che nel suo Trattato di semiotica generale (1975) definiva la semiotica, o scienza dei segni, di cui è specialista, «la disciplina che studia tutto ci che può essere usato per mentire». Quanto a La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), in cui il goliardismo giunge all’acme, rimandiamo all’irresistibile libello che ne ha tratto Franco Palmieri, Loana e il professore, edito dall’Ares e tradotto addirittura in giapponese.
Insomma, a furia di intrufolarsi nelle teorie di complotti e di menzogne, Umberto Eco è come quegli agenti del controspionaggio che infiltrandosi nelle fila nemiche, finiscono per non saper più da che parte stanno, quali sono gli amici e quali gli avversari.
Infatti, le polemiche suscitate dal Cimitero di Praga, in cui si descrivono le trame dei massoni, dei gesuiti e degli ebrei, vertono soprattutto su un interrogativo: è un romanzo antisemita, dato che il protagonista Simone Simonini lo è certamente, al punto che Eco gli attribuisce perfino il falso dei Protocolli dei savi di Sion? Non ne ha dubbi Anna Foa, che ne ha scritto su Pagine ebraiche il 29 ottobre
scorso, e che l’Osservatore romano del 30 ottobre ha ripreso affiancandolo a un severo commento di Lucetta Scaraffia. Anche Le Monde del 3 dicembre scorso ha convenuto che «l’antieroe di Umberto Eco gli gioca dei brutti tiri».
L’intervista
Per dare la propria versione, Umberto Eco si è fatto intervistare da Claudio Magris, candidato Nobel in servizio permanente effettivo, sul Corriere della sera del 28 novembre scorso. Come la coalizione che ha perso le elezioni accusa chi ha votato Berlusconi di essere una massa di ignoranti, senza accorgersi che è ancor più umiliante essere sconfitti da dei cretini, Eco confida al collega: «Dovresti sapere per esperienza diretta che la gente non sa leggere i romanzi». E prosegue: «Un recensore poco amichevole ha chiesto perché dovevo perdere tempo a dimostrare che i Protocolli sono un falso quando è già stato ampiamente dimostrato. Ma santiddio, proprio perché, malgrado tante dimostrazioni, nella maggior parte del mondo continuano a prenderlo sul serio». A parte che nella maggior parte del mondo non è sicuro che i Protocolli siano presi sul serio, dovrebbe essere Il cimitero di Praga, che riporta per filo e per segno le accuse antisemite, senza dimostrare un bel nulla e senza prendere partito, a dissipare l’abbaglio? Ah, ah, ah.
È come se, per tranquillizzare il lettore ebreo o non ebreo, l’autore dicesse: «Ho scritto che tua sorella, di notte, è rintracciabile sul Raccordo Anulare, ma poi vado da Magris e gli dico che non è vero».
È di conforto che Umberto Eco, con quei suoi indigeribili romanzi, è lo scrittore italiano più venduto nel mondo, ma probabilmente il meno letto.