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 2010  dicembre 10 Venerdì calendario

Fikri Mohamed

• (Marocco) 1987 (~). Fermato il 5 dicembre 2010 come indiziato per l’omicidio di Yara Gambirasio (vedi GAMBIRASIO Yara), la tredicenne ginnasta scomparsa a Brembate Sopra, comune della Val Brembana in provincia di Bergamo, il 26 novembre 2010, fu scarcerato dopo due giorni grazie a una nuova traduzione dell’intercettazione che l’aveva portato in carcere (erano arrivati a lui dopo che un cane poliziotto svizzero sembrava aver trovato tracce della ragazza nel cantiere in cui lavorava): «[...] Decisivi i pareri di ben sette traduttori interpellati dal pm Ruggeri. La frase “Perdonami, Allah, non l’ho uccisa io” è diventata così, “Che Dio lo spinga a rispondere” e altre varianti simili. “Non ho usato la parola uccidere, fate sentire quella frase a un traduttore che conosca l’arabo», ha chiesto più volte nel corso dell’interrogatorio Fikri, che ha spiegato anche che stava pronunciando quelle parole mentre tentava di telefonare a El Amroui Eddone, un cugino che gli doveva restituire i duemila euro prestati in vista di un matrimonio. Eddone, interrogato, ha confermato tutto. Chiarito anche il passaggio di un’intercettazione nella quale Fikri chiedeva alla fidanzata di buttare via una vecchia scheda telefonica e di utilizzarne una nuova: “Volevo che non ricevesse più i messaggi del suo ex”. E il viaggio in Marocco scambiato per un tentativo di fuga? “Era programmato - ha spiegato Fikri - e se i miei genitori non lo sapevano e perché volevo fare loro una sorpresa”. Sapeva dell’imminente partenza, però, il suo datore di lavoro, Roberto Benozzo [...]» (Davide Carlucci, “la Repubblica” 8/12/2010) • «[...] Mi ero imbarcato sul traghetto che mi avrebbe finalmente riportato in Marocco. A casa. Come avevo concordato con il mio datore di lavoro stavo ritornando dalla mia famiglia per un periodo di riposo [...] Inizialmente dovevo andare via il 18 dicembre ma poi, visto che con il maltempo il nostro lavoro si ferma, avevo deciso di chiedere l’aspettativa e imbarcarmi il 4 dicembre [...] Ero molto felice dopo essermi imbarcato a Genova. Sapevo che avrei rivisto la mia famiglia alla quale sono molto legato. Ero andato a cena e stavo parlando con dei miei connazionali. Tutto tranquillo. Poi, all’improvviso, si sono avvicinati due ufficiali della nave e mi hanno chiesto i documenti. Glieli ho dati senza batter ciglio. Mi hanno chiesto di seguirli nella cabina di comando. Ho trovato dei militari italiani che mi hanno fatto delle domande. Non avevo mai sentito neanche il nome di Yara. Poi mi hanno pure mostrato la foto. Niente. Non l’avevo mai vista. Mi hanno detto che avrei dovuto seguirli. Siamo rientrati in porto. Mi sono ritrovato in cella, a Bergamo, e da quel momento è iniziato il mio incubo. Mi è crollato il mondo addosso. Sono passato dalla gioia di pensare a riabbracciare i miei genitori alla paura delle ore trascorse da solo in una cella [...] Ma volevo dimostrare subito la verità e cioè che io non c’entravo nulla. Più passava il tempo e più volevo urlarlo al mondo. Ad un certo punto, però, ho avuto anche paura di non essere creduto. L’idea di trascorrere tanti anni da innocente in cella mi toglieva il respiro. Ho pensato al peggio. Ho sperato anche che la notizia non fosse arrivata ai miei genitori [...] Ho risposto a tutte le domande. Mi dovevano credere. Poi meno male che hanno riascoltato la telefonata ed hanno capito bene le parole che avevo pronunciato nel mio dialetto [...]» (Alessio Ribaudo, “Corriere della Sera” 10/12/2010).