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 2010  dicembre 10 Venerdì calendario

Quando il padrino regna con polpette involtini e cassata - A tavola si appiana qualunque contrasto, si fa la pace, si dichiara la guerra, si decidono affari, si suggellano importanti giuramenti, si saldano alleanze

Quando il padrino regna con polpette involtini e cassata - A tavola si appiana qualunque contrasto, si fa la pace, si dichiara la guerra, si decidono affari, si suggellano importanti giuramenti, si saldano alleanze. A tavola ci si prende, insomma, e ci si lascia, spesso anche in maniera violenta. I siciliani questo lo sanno bene, perché possono vantare una cucina più efficace di qualsiasi arte diplomatica. La politica, la mafia, i grandi affari, le decisioni storiche: sempre disegnate all’interno di una cornice mitologica ricca di aromi, di profumi indimenticabili, di tavole imbandite e di menù interminabili. Cosa nostra, politica e grandi affari: non è casuale l’accostamento. E non lo è per gli autori del curioso «racconto culinario» (La mafia a tavola), scritto da Jacques Kermoal, collaudato giornalista esperto di fatti italiani, e Martine Bartolomei, redattrice di «Le Figaro», specialista di gastronomia e suggeritrice delle 55 ricette sicule scelte per «ambientare» 10 storie di mafia. Un commento, a partire dalla ricotta e cicoria di Provenzano per finire agli odierni «pranzi calabresi» a Milano, è affidato a Piero Colaprico. Fu un banchetto - galeotti il baccalà alla messinese e l’agghiotta di pesce spada - a incoronare liberatore, nel 1862, Giuseppe Garibaldi. Un menù indigesto - dicono gli autori - perché Garibaldi «credendo di donare la Sicilia a Vittorio Emanuele, l’ha appena regalata alla Mafia». Ottimi, comunque, anche lo stufato di gallinelle farcite al tartufo e il cosciotto di capriolo. Insuperabile, la cassata che chiude il pranzo di don Vito Cascioferro, capomafia corleonese ospite del deputato De Michele Ferrantelli. Don Vito «affonda il cucchiaio nella cassata» appena undici minuti dopo aver ucciso, a Palermo, con le proprie mani il poliziotto Joe Petrosino venuto da New York, nel 1909, per distruggere la «Mano Nera» di Cascioferro. Inutile dire che il deputato sarà l’autorevole conferma all’alibi del capomafia. Grandi commensali, questi mafiosi. Forse un po’ troppo celebrati, con qualche cedimento all’invenzione retorica. Prendiamo Lucky Luciano o don Calò Vizzini o, ancora Giuseppe Genco Russo, dipinti al loro desco con giornalisti, procuratori oppure addirittura alla tavola di cardinali, come nel caso di don Calò invitato dal primate di Sicilia, Ernesto Ruffini. Era il 1948 e incombevano le prime elezioni dell’era Repubblicana, così tra i «maiulini bolliti» e gli involtini di manzo ai carciofi, innaffiati con Malvasia e Albanello asciutto, il cardinale di Palermo poteva «concordare» una lista elettorale democristiana capace di arginare il pericolo comunista. Un balletto di nomi altisonanti, suggellati forse più da cedimenti alla tradizione orale che all’accurata ricerca storica, si alterna all’elencazione di cibi e bevande raffinate. Si parla di Mussolini, di Roosevelt, di Garibaldi e di Cavour. Sembra quasi di vederlo, il generale Dalla Chiesa alle prese col «Tonno alla Siracusana», mentre un procuratore lo mette in guardia circa la pericolosità della mafia catanese e dei suoi kalashnikov. Insomma una mafia quasi aristocratica. Ma è proprio così? Certo, crediamo di più alle polpette terra terra di Peter Clemenza, che - nel film «Il Padrino» - sorveglia il sugo che bolle, dopo aver consigliato a qualcuno: «A pistola lasciala, pigliami i cannoli». E ci sembra più aderente alla realtà il macabro pranzo di Saro Riccobono, nemico giurato di Totò Riina, che, distrutto dal cibo, si appisola sotto un albero per svegliarsi giusto quando ha già la corda al collo. Riesce a vedere il volto paonazzo del suo killer che gli sussurra: «Saro, qui finisce la tua storia». Altro che budini e granite all’arancia.