Gigi Riva, L’espresso 16/12/2010, 16 dicembre 2010
SCOMMESSA KOSOVO
La Storia sta già scappando in avanti e si lascia alle spalle una diplomazia mondiale ancorata a un presente che è già passato. Domenica 12 dicembre ci sono elezioni politiche in Kosovo, le prime dopo la proclamazione dell’indipendenza del 17 febbraio 2008, e l’attenzione è tutta sul profilo del possibile vincitore, quanto sarà o meno disposto ad aprire trattative con la Serbia che quell’indipendenza si rifiuta di riconoscere e continua a considerare il Kosovo come una sua provincia scippata. Ma nel cuore della stragrande maggioranza degli abitanti un altro scenario, fino a ieri indicibile, fa capolino e obbligherà, presto o tardi, a riconsiderare gli equilibri di un’area, i Balcani, per definizione instabili. Un sondaggio Gallup rivela che l’81 per cento degli albanesi del Kosovo (più 25 per cento rispetto al 2008) sono favorevoli al ricongiungimento con la madrepatria per creare, assieme a questa e a una fetta di Macedonia, la Grande Albania. Un sentimento diffuso anche a Tirana (63 per cento) e che è il frutto di decenni di semina di un ceto intellettuale ultrapatriottico ora approdato al tempo del raccolto. Esisteva ancora la Jugoslavia quando a Tetovo (Macedonia) funzionava una università illegale con oltre 5 mila studenti, dotata di tecnologie ultramoderne, finanziata da magnati della diaspora albanese, dove le lezioni di storia e di dottrine politiche insistevano sull’idea che un’etnia separata da accidenti temporanei debba, presto o tardi, riunificarsi in un unico Stato che, peraltro, non avrebbe soluzione di continuità territoriale.
Il rettore della istituzione clandestina, ospitata nelle case private e negli scantinati di quella cittadina con un’urbanistica da socialismo reale, non faceva mistero degli obiettivi anche se li rimandava a un futuro prossimo, visto che all’epoca, potevano suonare blasfemi. Erano i tempi in cui la Grande Croazia e, soprattutto, la Grande Serbia erano progetti che stavano fallendo nel sangue e nelle guerre. Cambiamenti di confini erano considerati un’eresia dalla comunità internazionale intenzionata a difendere la multietnicità degli Stati nati dall’implosione del Paese di Tito.
L’indipendenza del Kosovo, con la scusa peraltro generosamente fornita da Belgrado della repressione serba, era solo un primo passo. Sarebbe seguito un referendum autonomista nelle aree della Macedonia occidentale abitate da albanesi (l’asse Tetovo-Gostivar lungo le sponde del lago di Ocrida) per arrivare infine, trionfalmente, all’annessione alla madrepatria. Programma visionario non meno che ambizioso che ora, però, sta cominciando ad avere qualche traccia di concretezza. C’è il sondaggio Gallup, clamoroso, a segnalare quanto l’idea abbia marciato. E c’è un partito politico nuovo, Vetevendosja (Autodeterminazione), in lizza alle politiche, che ha la Grande Albania come principale punto programmatico. Lo guida un giovane di 35 anni, Albin Kurti, già leader delle rivolte studentesche degli anni Novanta, avvocato dei diritti umani, arrestato dai serbi e dai macedoni per le sue idee. Insomma con un pedigree da perfetto irredentista. Un’idea, un progetto, un leader. E la televisione, che è arrivata a diffondere il verbo laddove normalmente si fa flebile la voce degli intellettuali: zone rurali, campagna, popolo. È un fatto che si sia creata una zona di omogeneità linguistica pan-albanese grazie alle antenne e, di recente, grazie alle possibilità moltiplicate del digitale terrestre. Fratelli separati da confini novecenteschi trovano un terreno comune su Top Channel, Tv Klan, Vizion Plus, AlSat. Talk show, dibattiti, persino la condivisione sullo stesso canale dei Mondiali di calcio, "Grande fratello" allargato con presenze delle varie aree. E, in sottofondo, la percezione che sia stato un errore della storia dividere ciò che la genetica unisce. Difficile che Albin Kurti possa uscire trionfatore dalle urne già adesso. Ma già adesso va preso sul serio. Soprattutto perché la sua visione nuova ha uno straordinario alleato nel fallimento dei partiti che sinora hanno gestito il Kosovo e che non sembrano poter fare di meglio. Sia che vinca Hashim Thaci (premier uscente, ex comandante Uck, Partito democratico del Kosovo), sia che si risollevi la Lega democratica del Kosovo che fu di Ibrahim Rugosa e ora è diretta dal sindaco di Pristina Isa Mustafa, la prospettiva è quella di una continuità poco lusinghiera. Troppo legate, queste formazioni, ai debiti di riconoscenza verso i combattenti dell’esercito di liberazione e verso le varie mafie claniche che da 11 anni tengono in ostaggio il Paese.
Nonostante la comunità internazionale abbia investito poco meno di 5 miliardi di euro (su un terreno grande come l’Abruzzo e per una popolazione di poco superiore ai due milioni) i risultati sono desolanti. Le statistiche ufficiali parlano del 50 per cento del Pil formato da traffici illegali. Calcoli meno benevoli verso il governo, ma probabilmente più attendibili, alzano la percentuale fino al 70 per cento. Per traffici illegali si intenda droga, armi, esseri umani, e persino organi, come documentato da varie inchieste. La corruzione è un cancro che divora la pubblica amministrazione. Il 45 per cento vive sotto la soglia della povertà (1,42 euro al giorno) e il 17 per cento in povertà estrema (0,93 euro al giorno). La disoccupazione è al 48 per cento, sale al 75 per cento per i giovani sotto i 25 anni che sono la metà della popolazione. Il Pil pro capite è di circa 1.800 euro l’anno, il 7 per cento della media dell’Unione europea e, per fare un paragone coi vicini, è il 39 per cento di quello della Serbia e il 65 per cento di quello dell’Albania. In Europa solo la Moldavia sta peggio.
Le mille gru alzate sul cielo di Pristina, le decine di nuovi caffè che aprono i battenti, i lussuosi fuoristrada in circolazione e i moltissimi autolavaggi che crescono come funghi sono il segno evidente del riciclaggio del denaro proveniente dall’economia nera gestita dalle mafie. Questo il Kosovo 2010. Dove i serbi che abitano a nord del fiume Ibar sognano di tornare sotto il controllo di Belgrado e gli albanesi del resto del Paese bevono l’uovo dell’indipendenza oggi. Ma la gallina domani è il congiungimento con mamma Albania. È tirato per la giacca da due parti opposte e rischia di uscirne dilaniato il nuovo Stato che, forse, non sarebbe dovuto mai nascere.