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 2010  dicembre 16 Giovedì calendario

LA BUFERA SI AVVICINA


La regola d’oro, di questi tempi, è: non stuzzicare i mercati. Non far annusare agli speculatori in movimento come lupi affamati la tua paura, non fargli avvistare il tuo lato scoperto. "L’euro non è in discussione", ha scandito pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi aggiungendo la sua ad altre autorevoli voci dell’eurocontinente scese in campo per scaldare la fiducia nella moneta unica e nel suo futuro, niente fughe, niente paesi di serie A e di serie B, nervi saldi e denti stretti, passerà la nottata. Eppure quei lupi affamati che hanno messo sotto tiro l’Irlanda dei crac bancari non perdono di vista le nuove prede: Portogallo e Spagna, prima di tutto, ma ogni occasione è buona per allungare la lista. Ecco quindi puntare all’Ungheria appena punita da Moody’s con un voto che rasenta il titolo spazzatura, o alla Francia, che il capo del London Stock Exchange Xavier Rolet sorprendentemente indica come il prossimo paese sotto attacco per via del suo enorme debito pubblico. E l’Italia? Che ne sarà dell’Italia quando dovrà chiedere ai mercati di rifinanziare il suo megadebito, secondo solo a quello greco? Riuscirà a convincere i vigilantes dei bond - come li ha definiti l’economista americano Ed Yardeni - a fidarsi della promessa che verranno ripagati, e che non ci saranno ritrutturazioni o, peggio, default? E soprattutto, al Tesoro italiano quanto costerà essere creduto dai mercati? Dovrà pagare tassi più alti o ricorrere a una nuova stretta dei conti, in altri termini a una nuova manovra?
Che i tassi a lungo termine saliranno per tutti, non ci sono dubbi. "Potrebbe crescere il rischio di un circolo vizioso tra il costo e il livello del debito pubblico", avverte Via Nazionale nel suo primo Rapporto sulla stabilità finanziaria fresco di stampa: "L’incremento del debito provoca un aumento della curva dei rendimenti, che a sua volta spinge al rialzo il disavanzo e il debito". Pur non facendo riferimento all’Italia, sembra la foto di famiglia, scattata a via XX Settembre. Solo nel 2011 lo Stato italiano ha in scadenza 260 miliardi di titoli tra Bot, Btp, Cct (tanto per fare un paragone la Spagna, secondo il "Financial Times" dovrà rinnovare titoli per 160-180 miliardi): un centinaio dei quali solo tra febbraio e aprile. A imbellettarsi per i mercati, per di più, i governi non saranno soli, perché anche banche e imprese europee hanno fatto ricorso alle obbligazioni per raccogliere denaro negli ultimi due anni e quasi 800 miliardi sono in scadenza nel 2011. La gara per convincere i vigilantes dei bond (fondi pensione, assicurazioni, ma anche i singoli bond-people) a metterci ancora il loro denaro sarà durissima.
"È qui che dovrebbe entrare in campo la politica", afferma Sandro Gozi, capogruppo Pd nella Commissione per le politiche dell’Unione europea alla Camera, "finora i governi hanno agito in un’ottica emergenziale, un tassello qui un tassello là. Ma non si capisce se ne uscirà un bel mosaico stile Ravenna o un orrendo patchwork". In effetti finora dalle capitali europee sono arrivati segnali contrastanti. La Germania ha accettato il salvataggio delle banche irlandesi malgestite perché il costo del loro crack sarebbe troppo elevato per la comunità dell’euro, ma soprattutto perché avrebbe danneggiato le proprie banche, molto esposte in Irlanda (come pure in Spagna). Ma si è opposta alla soluzione di difendere i debiti sovrani attraverso la creazione di una Agenzia del debito europeo, caldeggiata ufficialmente da Giulio Tremonti e dal lussemburghese Claude Junker. "Mettere in comune pezzi del debito sarebbe il modo per arginare la speculazione", afferma anche l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco (in un’inedita convergenza con Tremonti): "Negli Usa se c’è una crisi di bilancio dell’Ohio o dell’Arkansas, nessuno si mette ad attaccare il dollaro". Merkel e il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schauble da questo orecchio non ci sentono. L’alchimia di mettere insieme paesi con la tripla A e paesi periferici meno affidabili nella gestione del proprio debito pubblico darebbe vita a un mercato da 6 mila miliardi di dollari, lo metterebbe in concorrenza con il mercato dei Treasury americani, che di miliardi di dollari ne vale 6.900, ma avrebbe soprattutto l’effetto di dare sollievo alle finanze dei meno virtuosi gravando sulle economie più forti: i tassi degli e-bond, insomma, sarebbero più bassi di quelli portoghesi, o italiani, ma più alti di quelli tedeschi, e magari anche francesi.
Si può capire perché Berlino e Parigi non ci stanno: la moneta unica non può eliminare il rischio insito nelle diverse economie dell’Unione, non può lasciare spazio all’"azzardo morale" di chi poi non vuole pagarne il prezzo. Vero. Ma, viceversa, c’è chi fa notare i vantaggi che finora i tedeschi hanno goduto grazie all’euro: "Il cambio fisso con gli altri paesi europei", spiega Visco, "ha consentito all’export tedesco di decollare come mai sarebbe successo con il marco". Per quanto ancora potranno arroccarsi in difesa dei propri interessi nazionali, se intorno cresce la paura di viaggiare su di un Titanic e i mercati finiranno per farla pagare un po’ a tutti?
L’eroe di questi giorni è stato il capo della Bce Jean-Claude Trichet. Questo ex ingegnere e civil servant francese è riuscito a tenere la barra da solo in mezzo all’eurocaos. Ha respinto gli attacchi ai paesi più deboli comprando senza risparmiarsi i loro titoli (ha speso finora 69 miliardi, e i mercati fantasticano che potrebbe arrivare fino a mille miliardi di euro). Ha vinto le resistenze del consigliere della Bundesbank. Soprattutto, ha chiamato i governi a fare la loro parte. Che non è solo prepararsi a sostenere il Fondo di stabilizzazione da 440 miliardi creato per intervenire nelle crisi, o pensare che cosa avverrà dal 2013 in poi, quando la rete di salvataggio transitoria dovrà lasciare il passo a un meccanismo permanente ancora tutto da costruire. Ma è soprattutto rendere credibili i piani di riduzione del debito. Cioè il graduale ritorno dentro i parametri di Maastricht.
Un cammino che per noi è particolarmente difficile. Le regole europee ci chiedono di riportare il deficit pubblico sotto il 3 per cento entro il 2012 dal 5,3 attuale, e di ridurre il debito a tappe forzate, la qual cosa comporterebbe, secondo le stime, manovre dell’ordine dei 35-40 miliardi l’anno. È vero però che la trattativa su tempistica e penali per il rispetto di questo parametro sono ancora in discussione. Ma è l’obiettivo deficit che preoccupa i cani da guardia di Bruxelles. Le stime della Commissione, infatti, divergono da quelle del governo italiano: nel 2012 il rapporto deficit-Pil dovrebbe essere del 3,5 e non, come assicurato da Tremonti, del 2,7. Sembra un piccolo scarto, ma non lo è. Soprattutto se si considera che la Germania, sempre la prima della classe, scenderà sotto il 3 per cento entro il 2011, con ben due anni di anticipo.
Il nostro cammino di avvicinamento all’obiettivo è infatti irto di molti pericoli. Intanto, nel 2011 il governo punta ottimisticamente a scendere dal 5 al 3,9. Bruxelles lo fredda fermandosi al 4,3. Ma è soprattutto la crescita che può giocare un brutto scherzo alle ambizioni di Tremonti. In un’Europa che cresce poco, l’Italia cresce pochissimo, e il 2011 potrebbe deludere le aspettative, avanzando al ritmo di un più 1,1 per cento (stima Ue) contro l’1,3. Lo spazio per arrivare all’obiettivo senza infliggere muove amare medicine al sistema è dunque molto esiguo. Sommando lo scostamento del 2011 con quello del 2012, si materializza un buco totale di 12 mila miliardi. Questo immaginando che tagli delle spese e incassi fiscali funzionino come un orologio svizzero. "Il rischio di un aggiustamento da 7 miliardi a fine 2011 c’è", ammette Visco, "anche se conviene sempre anticipare le attese dei mercati". Appuntamento addirittura a gennaio?