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 2010  dicembre 10 Venerdì calendario

L’ALTRA BELLEZZA DELLE SCULTURE TRIBALI. ECCO LA MADRE DELLE PRIME AVANGUARDIE

Questa è una storia di scoperte e di rivelazioni. Comincia a Parigi nei primi anni del Novecento. Esattamente alla fine del 1906, quando il fauve Maurice de Vlaminck, durante una passeggiata sulle rive della Senna, entra nella bottega di un mercante di anticaglie. Lì si imbatte in una serie di strani feticci in legno eseguiti da anonimi creatori dell’Africa francese. «Grotteschi e rozzamente mistici», verranno definiti. Qualche mese più tardi — è l’estate del 1907 — Pablo Picasso è in visita al Musée de l’Homme, al Trocadéro: ricco archivio di icone esotiche. Un incontro che inciderà in maniera determinante su «Les demoiselles d’Avignon», il quadro considerato da molti come l’incipit dell’arte contemporanea.
Questi due episodi sono all’origine di quella che Guillaume Apollinaire chiamerà «melanomania e melanofilia». Siamo dinanzi a una vera moda, che contagerà artisti, scrittori, intellettuali, galleristi. In una stagione segnata da forti disagi — gli inizi del XX secolo —, molti avvertono l’esigenza di guardare altrove. Ci si richiama a una espressività sorgiva, incorrotta; a una sapienza riscaldata dal divino; al mito del buon selvaggio. Ci si spinge al di là del recinto protettivo della cultura europea, per misurarsi con il fascino del diverso: si vuole riscoprire quel che non è stato corrotto dalla civiltà. Tra i «melanofili», Blaise Cendrars, che pubblica un’Antologia negra; Ricciotto Canudo, che auspica l’avvento di un nuovo primitivismo; Tristan Tzara, che loda le qualità delle opere «coloniali»; André Breton, che invita i francesi a «negrizzarsi». Fino ad Apollinaire e Picasso, collezionisti di statue e di maschere apotropaiche provenienti dal Gabon, dalla Guinea, dall’Egitto. Sarà proprio Apollinaire ad annotare: «La curiosità, dedicandosi alle sculture d’Africa e d’Oceania, ha trovato un nuovo alimento».
Una curiosità che stimola mercanti come Paul Guillaume. Ma risveglia anche paure segrete. Perché quei «testimoni inquietanti» suscitano timori, angosce, ossessioni. Ma possono anche sedurre. Non si tratta solo di costruzioni dal valore antropologico. Sono «attrezzi» dotati di profonda qualità estetica, che indicano una strada per uscire dagli schemi impressionisti e postimpressionisti. A differenza degli artisti occidentali, quelli esotici non rappresentano le apparenze: di una faccia, ad esempio, ritraggono non ciò che vedono, ma ciò che sanno. Conducono una ricerca esclusivamente plastica. Per sfiorare la struttura nascosta dietro il visibile, compiono semplificazioni estreme. Non inseguono una bellezza simmetrica e classica. Non temono il brutto, inteso come il lato perturbante del bello: esasperano dettagli, sperimentando anamorfosi. Quasi istintivamente, elaborano una poetica della deformazione. Plasmano silhouettes drammaticamente ieratiche, caratterizzate da verticalità, da equilibrio geometrico, da essenzialità volumetrica, da purezza compositiva. Architetture che non rimandano a un asettico calcolo, ma rispondono solo a regole interne. Questo bisogno di riduzione è sempre sorretto da tensione spirituale. Pur privi di consapevolezza artistica, gli scultori negri marcano una netta distanza dal reale, per avviarsi verso un inatteso preconcettualismo. Senza rispettare i principi della verosimiglianza, modellano visi e corpi disarticolati. Liberi da condizionamenti esteriori, non replicano la natura. Vogliono qualificare, come ha ricordato Michel Leiris, le forme, «secondo un movimento (...) che va dall’idea (...) alla figura».
Importanti momenti dell’avanguardia parigina primonovecentesca nascono da qui. Da queste lontane memorie traggono origine gli scandalosi gesti dei cubisti, impegnati a portarsi verso una sorta di realismo analitico. Picasso e Georges Braque pensano l’arte non come racconto, né come descrizione, ma come deformazione, tesa a mettere in rilievo alcune unità linguistiche finite e costanti, prive di riferimenti denotativi. Disarticolano identità, scompongono fisionomie, mandano in frantumi anatomie, propongono smontaggi: raffigurano i volti contemporaneamente, da molteplici punti di vista, da molti lati, secondo angolazioni dissonanti. Dal dialogo con i feticci muoverà anche Amedeo Modigliani, per elaborare un’originale ipotesi di arcaismo moderno: uno stile barbarico e, insieme, elegante. Forse, l’ultima figurazione possibile. Ecco le sue compatte e austere teste: solenni e antichissime. Blocchi di pietra grezza, su cui sono incisi lievi tratti: visi inclinati, con palpebre chiuse, occhi senza pupille, nasi aguzzi. Massi grezzi, da cui affiorano sagome ancora etrusche. Silenti cariatidi, ritagliate nella scabra pietra. Custodiscono una trattenuta sensualità. Ma presentano anche aspetti densi di consonanze con i totem africani. Una monumentalità decostruita, fatta di volti ben definiti ma asimmetrici, di proporzioni alterate, di arti lievemente sconnessi.
Anche Modigliani sogna il Paradiso perduto. Anch’egli è sedotto da una struggente nostalgia per l’infanzia e per la giovinezza. Una nostalgia che, come ha scritto Ernst Gombrich, tende a fondersi «facilmente nella mente dell’uomo con il desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente».
Vincenzo Trione