Sergio Romano, Corriere della Sera 10/12/2010, 10 dicembre 2010
SECONDA PUNTATA – LA STORIA TRADISCE (DI NUOVO) I ROMENI. ORA E’ LA CRISI CHE MORDE LA DEMOCRAZIA
Lord Eric Roll, economista e banchiere, nacque austriaco nel 1907 a Czernowitz in Bucovina (una regione oggi in buona parte ucraina), ma divenne romeno, grazie ai trattati di Versailles, dopo la fine della Grande guerra. Quando giunse il momento di scegliere una facoltà universitaria, suo padre gli disse che l’industria dei petroli romeni avrebbe offerto buone prospettive di carriera a un giovane ambizioso e intelligente. Fu così che, incoraggiato dalla famiglia, il giovane Eric approdò all’università di Birmingham, dove era allora il solo corso di laurea europeo in ingegneria petrolifera. La sorte gli riservava altre prospettive. Roll rimase in Gran Bretagna, dove sarebbe diventato una sorta di mandarino della grande burocrazia economica e, dopo una brillante carriera nella finanza pubblica e privata, un autorevole membro della Camera dei Lord. Ma la scelta professionale suggerita dal padre dimostra quale fosse la reputazione della Romania negli anni Venti. Dopo qualche acrobazia diplomatica il Paese aveva terminato la Prima guerra mondiale nel campo dei vincitori e raddoppiato il proprio territorio strappando la Dobrugia settentrionale alla Bulgaria, la Bessarabia alla Russia, la Transilvania all’Ungheria e la Bucovina all’Austria. Non è tutto. Questo piccolo grande Paese aveva i più importanti pozzi petroliferi a ovest del Caspio, un’agricoltura fiorente, una capitale che voleva essere la Parigi dei Balcani, un rispettabile ruolo internazionale, una intelligencija cosmopolita e una società multietnica in cui i romeni dominavano una galassia composta, nell’ordine, da magiari, sassoni, ebrei, rom, turchi, russi e greci del mar Nero. Vi era persino una colonia di veneti e friulani immigrati prima della Grande guerra, oggi ridotta a qualche migliaio di oriundi ma ancora rappresentata nel Parlamento di Bucarest da un deputato di origine italiana. Questa era la «Grande Romania» del periodo fra le due guerre.
La Storia non le è stata benevola. Tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Ottanta la Romania ha sperimentato, con qualche variante nazionale, tutti gli «ismi» del Ventesimo secolo: nazionalismo, fascismo, antisemitismo, comunismo. Ha subito l’umiliazione della sconfitta, l’occupazione della Wehrmacht, quella dell’Armata rossa e infine la satrapia di un nuovo principe Dracula reincarnato nella persona di Nicolae Ceausescu. La transizione, dopo il crollo del regime comunista, è stata inevitabilmente viziata da molto trasformismo e opportunismo. Come in Russia, una buona parte dell’apparato del partito comunista si è trasferita, con armi e bagagli, nella democrazia e nel mercato. I più abili e i più ambiziosi hanno approfittato delle privatizzazioni per arricchirsi. Altri usano le loro funzioni o la loro uniforme per arrotondare lo stipendio. Secondo una indagine promossa dall’Associazione per la realizzazione della democrazia, ogni cittadino romeno pagherebbe mediamente una «mazzetta» annuale pari a seicento lei (140 euro), vale a dire una somma corrispondente al reddito mensile di molti poliziotti e modesti impiegati dopo la drastica riduzione degli stipendi e delle indennità di servizio decisa dal governo negli scorsi mesi. Le risorse naturali — agricoltura e petrolio — hanno perso, nel nuovo contesto economico europeo e mondiale, la loro antica importanza. Dai pozzi romeni escono oggi giorno 214.000 barili al giorno contro i due milioni e mezzo dell’Iraq, il più disastrato dei Paesi petroliferi. La Romania è sempre multietnica e multireligiosa, ma con qualche cambiamento. Molti sassoni (una delle comunità più laboriose) sono partiti per la Germania. Gli ebrei (400 mila prima delle persecuzioni) sono ridotti a circa sei mila persone. E i rom (fra un milione mezzo e due milioni secondo le stime del Consiglio per la lotta contro la discriminazione) sono molto più difficilmente amministrabili che non all’epoca del regime comunista, quando era possibile impiegarli nei grandi conglomerati di tipo sovietico.
Eppure non tutto è andato male. Renault, Ford, Amazon, Oracle e altre imprese straniere sono state attratte dalla modestia della tassa sulle imprese (16%) e dai bassi salari di una manodopera bene istruita. La Dacia, una vettura prodotta da Renault, si vende bene anche all’estero. L’industria del mobile è in buona salute. Gli industriali italiani (veneti per poco meno della metà) hanno creato 24.000 piccole e medie aziende, soprattutto in Transilvania. Gli emigrati romeni nell’Ue (in Italia 850 mila secondo l’Istat, un milione e mezzo secondo la Caritas) lavorano bene e contribuiscono con le loro rimesse al bilancio delle famiglie rimaste in patria. Bucarest è molto più pulita, restaurata e accogliente di quanto fosse dieci anni fa.
I guai sono cominciati nel momento in cui questa economia ancora zoppicante è stata investita dalla crisi del credito. I dati del 2009 sono complessivamente brutti. Un terzo degli industriali veneti ha deciso di tornare in patria. La crescita è stata negativa (meno 7,1%), la disoccupazione è salita al 7,8% (poco meno del doppio rispetto all’anno precedente), l’inflazione a l 5,6%, la spesa pubblica ha superato il gettito fiscale per circa 9 miliardi di euro, il deficit di bilancio è all’8,7%. I dati sono peggiorati nel corso del 2010 e hanno costretto il governo a contrarre un debito di 20 miliardi di euro con il Fondo monetario internazionale, l’Unione europea e la Banca mondiale. Ma i creditori hanno chiesto garanzie e dettato le condizioni. I salari della funzione pubblica sono stati ridotti di un quarto, le pensioni sono diminuite del 15% (ma la Corte costituzionale ha cassato il provvedimento) e gli esuberi nel settore pubblico saranno 140.000. Le grandi manifestazioni di protesta in maggio e in ottobre hanno suggerito a qualche osservatore un confronto con quelle del dicembre 1989. E quando i poliziotti hanno lanciato i loro cappelli contro il palazzo del governo, molti hanno ricordato la calata a Bucarest dei minatori della valle dello Jiu nel giugno 1990. Ma i minatori erano scesi nella capitale per sostenere la presidenza di Ion Iliescu, mentre i poliziotti arrabbiati hanno protestato contro l’attuale titolare della carica, Traian Basescu, un ex capitano della marina mercantile che, dicono i romeni, governa il Paese come una nave e tratta i suoi connazionali come una ciurma. Eppure, se dovessi riassumere le impressioni di un viaggio troppo breve, direi che la nave ha ancora buone possibilità di arrivare in porto.
Sergio Romano