Francesco Alberti, Corriere della Sera 10/12/2010; Massimo SIderi, ib.; Sergio Bocconi, ib., 10 dicembre 2010
CRAC PARMALAT, CONDANNA TANZI E VICENDA (3
articoli) – RISPARMIATORI DELUSI DAL RISARCIMENTO — «Condanna Calisto Tanzi a 18 anni...». La voce del giudice Eleonora Fiengo calamita sguardi e pensieri nella sala congressi dell’Auditorium Paganini, dove da 33 mesi va in scena l’autopsia giudiziaria della Parmalat che fu, orco capace di divorare 7 anni fa intere famiglie e i loro risparmi, gettando schizzi di fango sulla reputazione del «made in Italy». Diciotto anni per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta.
Diciotto anni per un buco da 14 miliardi di euro che si lasciò dietro una scia di debiti da 13 miliardi di dollari, 2500 creditori e 35 mila obbligazionisti (ora costituiti in giudizio) che si ritrovarono tra le mani bond dal valore della carta straccia.
Calisto Tanzi non è in aula mentre il giudice Fiengo snocciola nomi e pene. È nella sua villa ad Alberi Vigatto, alle porte di Parma. È tra quei muri, allietati da parco, campi da tennis, piscina e zona giochi per i nipotini, da dove difficilmente la legge potrà sradicarlo. È anziano, ha 72 anni. La salute, così raccontano gli intimi, non volge al meglio. E anche se 18 anni di condanna non sono pochi e rischiano, anzi, di diventare molti di più, se la Cassazione confermerà i 10 anni per aggiotaggio ai quali l’ex patron è stato condannato in Appello nel maggio scorso dal tribunale di Milano, insomma, se anche alla fine si ritrovasse con 28 anni sul groppone, l’uomo che trattava alla pari con De Mita, Craxi e notabili vari della Prima Repubblica, di giornate in carcere difficilmente ne farà.
Sono bastate 6 ore di camera di consiglio ai giudici Fiengo, Marco Vittoria e Alessandro Conti per incapsulare in una sentenza 75 udienze e quasi 3 milioni di atti. Accolta quasi interamente l’impostazione dell’accusa, che con il procuratore capo Gerardo Laguardia aveva chiesto per Tanzi 20 anni, indicandolo come il principale artefice, oltre che beneficiario, di quella che si era trasformata «nella più grande fabbrica di debiti del capitalismo europeo». La rovinosa caduta del signore di Collecchio (al quale la presidenza della Repubblica ha revocato «per indegnità» il titolo di cavaliere del Lavoro e la Croce al merito) si porta dietro una folta squadra di amministratori e sindaci (14) di quella che era la multinazionale del latte in polvere.
Condannati il fratello di Tanzi, Giovanni, rappresentante legale dell’azienda: 10 anni e 6 mesi. L’ex direttore finanziario Fausto Tonna (14 anni), che pure aveva collaborato con gli inquirenti per decodificare le montagne di falsi contabili che a lungo coprirono i buchi e le follie del colosso alimentare. Poi l’ex direttore marketing, Domenico Barili (8 anni), l’ex consigliere Luciano Silingardi, ex presidente di Cariparma: 6 anni. E a seguire gli altri, con condanne tra i 4ei 5 anni. Molti di loro, a partire ovviamente da Calisto Tanzi, sono stati int e r detti in perpetuo dai pubblici uffici. Gli assolti sono due: Alfredo Gaetani e Paolo Compiani.
I beffati? Ci sono anche loro tra le mura bianche dell’Auditorium tribunale. Con qualche capello bianco in più e un’espressione rassegnata rispetto a quando, anni fa, aspettavano l’arrivo di Tanzi per rovesciargli addosso tutta la loro rabbia. Ma ci sono.
Nella sentenza si parla di risarcimenti. Il tribunale ha infatti stabilito una provvisionale da 2 miliardi per la nuova Parmalat, guidata da Enrico
Bondi, destinando ai 35 mila risparmiatori il 5% del valore nominale delle obbligazioni sottoscritte. Considerando che l’ammontare di queste ultime si aggira attorno ai 600 milioni, la provvisionale dovrebbe essere di 30 milioni.
In teoria, però. È infatti altamente probabile che la parte del leone, in quanto principale creditore, spetti alla nuova Parmalat di Bondi. «Siamo delusi, abbiamo ottenuto di più, facendo accordi con le banche» commentano i risparmiatori che, rappresentati dal gruppo Sanpaolo attraverso l’avvocato Carlo Federico Grosso, hanno recuperato a titolo di transazione con gli istituti di credito un centinaio di milioni.
A meno che, dall’inesauribile «tesoretto» di Tanzi, non salti fuori per magia qualche altro quadro d’autore.
Francesco Alberti
LE SERIE A E B DEI CREDITORI. C’E’ CHI SI FERMERA’ AL 40% — La contabilità è crudele, anche nei recuperi. Ma tant’è. La diaspora degli ex creditori chirografari Parmalat, circa 130 mila, ha generato due popoli: i piccoli obbligazionisti di serie A che hanno potuto recuperare anche il 70% e quelli, formalmente del tutto uguali agli altri, che sono finiti in una serie B e che, al massimo, hanno potuto rigenerare il 40% di quanto perso nel più grande crac all’italiana. Non che sia stata adottata una disparità di trattamento. Ma il caso Parmalat è stato un’eccezione sotto molti punti di vista: la soluzione tecnica che ha trasformato di fatto gli obbligazionisti della vecchia Parmalat in azionisti della nuova società tornata in Borsa il 6 ottobre del 2005. E la strategia del Sanpaolo (oggi fusa con Intesa) che decise di affidare la difesa dei 32 mila correntisti finiti schiacciati sotto la fabbrica dei debiti di Collecchio a Carlo Federico Grosso.
Andiamo con ordine: ogni volta che dopo un crac viene aperto il cappello protettivo dell’amministrazione straordinaria — in questo caso la Marzano bis — chi è chiamato al recupero deve distinguere tra creditori chirografari, cioè senza garanzie, e privilegiati (generalmente il Fisco e le banche). In questo caso il supercommissario Enrico Bondi — definito così perché per velocizzare il processo si decise di concentrare su di lui i poteri generalmente affidati a un triumvirato — puntò molto su un braccio di ferro con le banche coinvolte nel crac. Una strategia che ha portato i suoi frutti: dalle revocatorie in questi anni sono stati spremuti 2,1 miliardi di euro. Tutti alla fine hanno pagato, gli istituti italiani come molti esteri. Anche se a Bondi non è riuscito il «colpaccio»: le caus e miliardarie c ontro Citi e Bank of America negli Usa, secondo alcuni osservatori finite in nulla anche per la prudenza dei giudici americani dopo il crac della Lehman.
Quei soldi e quelle transazioni hanno dato linfa al titolo in Borsa che sfiorò anche i 3,4 euro in piena euforia da recuperi. Chi ha venduto al picco ha recuperato circa il 40% visto che per il complesso meccanismo di conversione ogni euro corrisponde a circa il 12% dei vecchi crediti.
Ora il titolo sfiora i 2 euro (1,98). E dunque — sempre che gli azionisti almeno in parte siano ancora i vecchi creditori — il recupero è di circa il 24%. Ai quali vanno aggiunti i 780 milioni di dividendi distribuiti in questi anni grazie a un vincolo di statuto che obbliga a staccare il 50% degli utili. Infine ci sono i warrant convertibili: al massimo 500 sulle prime 500 azioni ottenute nel concambio. Un meccanismo pensato appunto per i piccoli. Sicché su 5.000 euro investiti si giunge a circa il 40%.
Ed è qui che avviene la diaspora: perché per i 32 mila fortunati che sono riusciti a costituirsi parte civile con Grosso e altri 8.000 con le associazioni è arrivato un ulteriore recupero da transazioni nelle aule di Tribunale che per i piccoli è quantificabile in un 27-28%.
Massimo Sideri
DALLE CARTE FALSE ALLA RICHIESTA DI PERDONO. STORIA DI UNA VORAGINE DA 14 MILIARDI — Tutto cominciò... quando? Difficile in effetti dire quando la Parmalat di Calisto Tanzi, ottavo gruppo industriale italiano e azienda alimentare nota in tutto il mondo per i suoi marchi, abbia cominciato a precipitare nella voragine da oltre 13 miliardi (19 con le garanzie, pari all’intero stato passivo dell’azienda) che l’ha inghiottita nel 2003. Perché almeno da una decina di anni prima il gruppo di Collecchio aveva avviato una metamorfosi. Accanto a latticini e biscotti aveva costruito una sorta di attività parallela: una fabbrica di carte false. Estratti conto, note di deposito, cambiali, contratti di licenza e così via. Tutto per coprire, appunto, debiti e perdite che si accumulavano in modo esponenziale.
Finché si arriva alla primavera 2003. La Consob ha già sotto i riflettori il dossier Tanzi ma proprio lui bussa alla commissione denunciando che un gruppo di banche d’affari estere lo sta «diffamando». E quasi per ironia della sorte nell’elenco che poi diventa un esposto alla Procura di Parma c’è anche la Lehman Brothers, che poi fallirà nel settembre 2008 con un crac che ha devastato i mercati e cambiato il corso della storia della finanza mondiale. L’accusa di Tanzi: i banchieri americani sostengono che il management della società ha falsificato i bilanci.
Il castello di carte (false) comincia a crollare poco dopo e tra fine novembre e i primi di dicembre del 2003 Tanzi e il suo direttore finanziario Fausto Tonna tentano il tutto per tutto: contattano le banche, cercano ipotetici cavalieri bianchi finché il 7 dicembre Tanzi telefona a Enrico Bondi, il manager che ha già risanato la Montedison e che in quel momento è impegnato nel rilancio della Lucchini. Il 9 Tanzi gli lascia carta bianca. Ma è troppo tardi. Il 17 dicembre Steve Sample, funzionario di medio livello della Boa, la Bank of America, invia un fax alla Grant Thornton, società di revisione della Parmalat che, su sollecitazione della Consob, ha chiesto una verifica urgentissima. Eccola: la Boa disconosce l’autenticità di un documento che attesta l’esistenza di posizioni in titoli e liquidità per 3,95 milioni. Insomma: i soldi non ci sono, il buco sì. La Consob convoca Bondi e gli riferisce tutto. È il crac. Anzi: il supercrac, più grave di quello della Enron che due anni prima aveva sconvolto l’America. Pochi giorni più tardi, il 27 dicembre, dopo un «misterioso» viaggio che lo avrebbe portato in diversi Paesi fra i quali l’Ecuador, Tanzi viene arrestato: due ufficiali della Guardia di finanza lo fermano alle ore 20 nel centro di Milano, a poche decine di metri da un ufficio nel quale ha appena avuto un colloquio di tre quarti d’ora con Bondi, nel frattempo passato da consulente a supercommissario della Parmalat, secondo un decreto approvato dal governo quattro giorni prima.
La storia ufficiale di Tanzi e dei suoi collaboratori, come Tonna, da quel momento si svolge nelle aule giudiziarie fra Milano (dove l’ex patron di Parmalat viene condannato a 10 anni per aggiotaggio e false comunicazioni sociali) e Parma, dove si «celebra» la bancarotta. Una storia costellata di episodi clou. Come il momento del «perdono»: nell’ottobre 2005 Calisto in aula scrive un biglietto che consegna al suo legale. «Il cavalier Tanzi chiede perdono a tutti coloro che, per condotte a lui attribuibili nel tentativo di realizzare un progetto e un sogno industriale, hanno sofferto e subito danni». Peccato però che, mentre nel corso degli anni si disvelavano buchi, falsi, pagamenti a politici, il pentimento di Tanzi registra almeno una prova al contrario: a fine 2009 uno scoop di Report rivela un tesoretto da almeno un centinaio di milioni in quadri: Van Gogh, Picasso, Monet, Modigliani, stipati in soffitte e cantine di amici ignari. Tanzi replica che le tele non sono nella sua disponibilità. Ma cosa nasconde ancora? Il «tesoro» di Calisto resta un mistero irrisolto: cosa è davvero scomparso nella voragine?
Nel frattempo Bondi risana e recupera con cause legali e transazioni oltre 2 miliardi da Deutsche bank, Morgan Stanley, Bank of America, Ubs, Credit Suisse, Intesa San Paolo, Unicredit, Deloitte. Nei primi nove mesi 2010 il gruppo ha fatturato 3,1 miliardi con conti in attivo. E oggi i mercati si chiedono se Parmalat, forte anche di 1,3 miliardi di liquidità, somma alla quale andrà ad aggiungersi la provvisionale da 2 miliardi stabilita ieri, potrà diventare preda o predatore sul mercato dell’industria alimentare. Risultato non trascurabile per l’ex fabbrica dei falsi.
Sergio Bocconi