Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 10/12/2010, 10 dicembre 2010
COSTANTINOPOLI NEGLI OCCHI DEI VIAGGIATORI
Cose Turche. Racconti dei viaggiatori italiani tra XVI e XX secolo, ripercorre itinerari e memorie di scrittori e poeti, ma anche mercanti, ambasciatori, militari. Edmondo De Amicis vi arrivò nel 1874, non ancora trentenne, su un bastimento che, come ricordò nei suoi appunti, «presentava uno strano aspetto. Turchi, ebrei, greci, armeni, albanesi, piccoli ménages turchi coi loro materassi stesi sopra coperta, coperte di tutti i colori, anfore, vasi, pantofole». Vi arrivò in una mattina nebbiosa e Costantinopoli gli rivelò la propria bellezza soltanto un pezzettino per volta, come una bella donna velata e pronta a sedurre. Per primo apparve «un punto bianco, la sommità d’un minareto altissimo, di cui la parte di sotto rimaneva ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i cannocchiali e si misero a frugare cogli occhi in quel piccolo squarcio della nebbia come per farlo più largo». Poi «si vide accanto al minareto una macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco a poco prendevano il contorno di case e la fila s’allungava, s’allungava». Poi «guardai e mi sfuggì un’esclamazione di stupore. Un’ombra enorme, una mole altissima e leggiera, ancora coperta da un velo vaporoso, si sollevava al cielo dalla sommità d’ un’ altura e rotondeggiava gloriosamente nell’aria, in mezzo a quattro minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate scintillavano ai primi raggi del sole. -Santa Sofia!-gridò un marinaio». Il racconto di quel viaggio, pubblicato tre anni dopo in due volumi da Treves, secondo la bizantinista Silvia Ronchey è il libro migliore di De Amicis, anche se il più noto è «Cuore».
Ora i due volumi originali sono esposti nella mostra «Cose Turche. Racconti dei viaggiatori italiani tra XVI e XX secolo», che ripercorre gli itinerari e le memorie non solo di scrittori e poeti, ma anche di mercanti, ambasciatori, militari. Ricordi che si affacciano dalle pagine dei racconti e dei diari, dalle carte geografiche, dalle fotografie e cartoline d’epoca provenienti dagli archivi della Società geografica italiana. Una parte dei materiali esposti sono contenuti nel libro «Delle cose de’ Turchi» curato da Nadia Fusco, che ripropone in versione anastatica alcune pagine tratte dai libri di quattordici viaggiatori italiani: dal veneziano Benedetto Ramberti, che si recò a Costantinopoli all’epoca di Solimano il Magnifico (prima metà del Cinquecento), fino all’esploratore Lamberto Vannutelli che partecipò al conflitto italo-turco del 1911.
Ma chi volesse approfondire, con gran diletto, la letteratura sulle «cose turche», non può ignorare l’appassionante libro di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini, pubblicato in questi giorni da Einaudi. Già nel titolo si intravede il fascino delle pagine: «Il romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente». Qui di scrittori se ne trovano addirittura centocinquantacinque. Non solo italiani, ma di tutto il mondo e di tutte le epoche. Incontriamo l’imperatore Costantino VII Porfirogenito (ovvero «nato nella porpora», nel 905), che descrive il prezioso e abbagliante repertorio del cerimoniale bizantino. Pietro Della Valle, che rientrato a Roma nel 1626 portò con sé i primi esemplari di gatti persiani. Il poeta inglese Byron, che durante il suo lungo soggiorno nel 1810, accasciato dal clima e dallo spleen, vide tutto ma non descrisse quasi nulla, lasciando la fatica di registrare le visite ai monumenti al suo accompagnatore John Cam Hobhouse, il quale dopo aver lasciato Byron a Costantinopoli annotò leggiadramente: «Salutato, non sine lacrimis, questo straordinario giovanotto, dividendo con lui un mazzolino di fiori».
Ci sono le pagine del seduttore Casanova, che «a Costantinopoli si fece amare anche dal suo stesso sesso» e poi, per avidità, ipotizzò di convertirsi all’islam con l’intento di sposare la figlia del ricco Yusuf. Ci sono Flaubert, «che della città esplorò soprattutto i postriboli», e Puskin che, arrivato in Armenia con il vittorioso esercito russo, sognò l’antica capitale dell’impero ottomano e ne evocò la decadenza in versi durissimi, ma non riuscì mai a vederla. E Giambattista Casti, abate gaudente e librettista di Salieri, che visitò Costantinopoli nel 1788, ma non l’amò perché vi si ammalò «o forse vi si ammalò perché non l’amò». Comunque ne ripartì dopo una ventina di giorni.
Lauretta Colonnelli