Massimo d’Azeglio, Epistolario IV, 10 dicembre 2010
LETTERA DI MASSIMO D’AZEGLIO A CHIARA FERRETTI
Torino, 27 dicembre 1848
Chiara mia, se hai pensato male di me, non vedendomi dar segno di vita da tanto tempo, non potrei darti torto, e sarei disposto a prendermelo in tutta la sua estensione; alla condizione però che di tutto m’accusi, fuorché di aver dimenticato tè, la tua amicizia, e tutta l’ottima simpatica tua fami- glia. Se tutte le volte che ho pensato a te ed a ciò che v’era d’affettuoso nell’ accoglienze che ricevevo da tutti voi, avessi avuto a metter penna in carta, v’avrei, credo io, rovinati a porti di lettere. Ora però non si tratta solamente di ricordarmi a voi e dirvi che vi voglio bene, si tratta che in mezzo ai disturbi avvenuti in Roma sto in pena che possiate averne avuta la parte vostra. Dimmene una parola Chiara mia, e dammi le tue nuove, ed io intanto per darti il buon esempio ti faccio compendio delle mie vicende, che non sono state tutte divertenti. Avrai saputo dai giornali, e forse da chi tornava in Roma dopo la campagna, che a Vicenza dopo dodici ore di combattimento nel quale mi trovavo al M[onte] Berico, 3 contro uno - e l’uno eravamo noi – fui malamente ferito nella gamba destra, e così posso dire che ho fatto il mio dovere meglio che potevo, finché non sono stato in terra. Fui portato a Ferrara poi Bologna poi Firenze. Stetti tre mesi a letto, due sulle stampelle, ed ora dopo sei mesi ancora ho un buco nella tibia, la ferita aperta, e quantunque possa camminare lo fo con stento, e vado sempre un po’ zoppo. Tutto questo, come puoi credere non fu un divertimento: non lo furono le veglie, le fatiche, le spese, i patimenti che, ho incontrati per cooperare a rialzar I’Italia dal suo fango; non fu un divertimento l’esser chiamato traditore, aristocratico, retrogrado dopo che, se non avevo fatto molto, avevo almeno fatto quel poco che potevo per la salute di tutti. No, tutto questo non fu un diletto. Ma vorrei aver dieci ferite, incontrar doppie fatiche, e spese, e pericoli e vorrei essere sotterra, e non aver veduto che trista razza siamo purtroppo noi Italiani; non aver scoperto che i nostri nemici più tremendi non sono già i Tedeschi ma sono - gl’Italiani, non essermi convinto che la malafede, la frode di pochi, valendosi dell’indicibile ignoranza [...] [2] vorrebbe liquidare a proprio profitto il premio delle fatiche, dei pensieri di tanti; e se non riuscirà - che non lo credo - in questo disegno, vi riuscirà purtroppo, a rovinare quel bene ci con tanto soffrire s’era riusciti ad ottenere. Credi Chiara mia, che questo pensiero m’è più duro che dieci archibugiate. M’accorgo che invece di darti nuove ti do lamenti: ti dirò dunque che a Firenze, - e qui - m’han voluto far ministro, ma non ho creduto accettare. Sto facendo il deputato, senza mai aprir bocca, perché non mi capacitano né gli uomini né le idee del momento-.* Credo anzi che uno di questi giorni, lascerò il mio posto a chi lo vuole, e me ne tornerò a Firenze, quantunque già m’abbiano bocciato a Livorno, ed ora mi dicono che mi si prepara altro. Ma non mi fanno paura [3]. Addio Chiara mia, ricordati di me, salutami Ferretti le sorelle [4] e tutti in casa e dammi le tue nuove dirigendo qui, ove rimarrò pure ancora qualche tempo.
Tuo di cuore
[Massimo]
Roma, proprietà privata. Non abbiamo potuto consultare l’autografo. Già edita in Lettere alla «povera Chiara», «Nuova Antologia», 1949, a. 84, p. 349. L’introduzione alla raccolta, per la qua- le rimandiamo a Epist., I, p. LUI, si chiude con la seguente avvertenza: «Nella trascrizione delle lettere ci siamo attenuti strettamente agli autografi, compresi qualche trascorso di penna e qual- che trascuratezza di interpunzione». Abbiamo seguito la lezione della «Nuova Antologia» pur adottando i criteri precisati nelle Avvenenze premesse al primo volume (Epist., I, pp. LXXXIII- LXXXV).
[1] Chiara Ferretti (1823-1876) era la secondogenita di Jacopo Ferretti e di Teresa Terziani. L’A. l’aveva conosciuta nel 1845, quando frequentava il salotto romano del poeta e vi leggeva passi del- la Lega Lombarda (cfr. Epist., II, pp. 360-362). La loro corrispondenza epistolare durò (almeno per quanto riguarda le lettere dell’A., che quelle della Chiara non sono state ritrovate) fino al 1857 «e sembra doversi escludere - asserisce l’autore del cappello premesso alle lettere dalla «Nuova Anto- logia» - che in tutto il decennio che durò la corrispondenza i due amici potessero rivedersi». «Fino a qual punto - commenta lo stesso — il marchese d’Azeglio riuscisse a far breccia in quel cuore scontroso non è dato arguire: ma da taluni accenni deliaìettera VI [del 3 agosto 1851) si dovrebbe pensare che a un certo momento, per merito di entrambi, si evitò di fare una sciocchezza. Si riflet- ta anche, che all’inizio del carteggio Massimo stava per toccare i 50 anni e la bella Chiara era sotto i 25; che per quanto Massimo [...] vivesse separato dalla sua seconda moglie Luisa Blondel, non avrebbe potuto fare onore a una parola veramente impegnativa» (p. 348). Nel 1858, Chiara andò sposa a Alessandro Spada, che aveva dieci anni meno di lei e le sopravvisse per trenta anni dopo essersi risposato con una Salviucci.
[2] «Abrasione per il timbro postale».
[3] L’A. stava redigendo allora la sua nota lettera Ai suoi elettori, comparsa poco dopo e nella quale allude alle minacce ricevute dai democratici; ricordando di essere stato bruciato in effigie a Livorno (cfr. la lettera 200, nota 3), scrive; «Potrei aggiungere, che oltre l’auto-da-fé di Livorno fui tempestato d’articoli di giornali e di lettere cieche, che mi annunziavano mi si sarebbe fatta la pelle; che venni sulle liste dei condannati a morte; e per quanto non ne credessi gran cosa di tutti questi esterminii, tuttavia siccome ho pur veduto individui picchiati malamente per aver detto e stampato quello che pensavano; siccome ho veduto prendersi d’assalto gli uffici di certi giornali [«Allude alla soppressione violenta del giornale moderato fiorentino "La Patria", i cui uffici erano stati presi d’assalto il 30 novembre...». (Nota del De Rubris)] [...]; così ho detto uom che si guarda mezzo salvato, ed uscendo la sera giravo largo ai canti e stavo preparato ed in avviso per quello che potesse succedere» (Scritti e discorsi politici, II, p. 127). Nel febbraio 1849, l’A. dovrà lasciar precipitosamente la Toscana, colpito da un mandato d’arresto spiccato dal Guerrazzi, come V si vedrà più avanti (cfr. E. BERTI, Lo «scontro» d’Azeglio - Guerrazzi per i moti livornesi del ’48 cit., p. 219).
[4] Su Jacopo Ferretti (Roma 6 lug. 1784 - ivi 7 marzo 1852), il noto poeta e librettista, cfr. G.,ORIOLI, Poeti e musicisti nella Roma ottocentesca - Il salotto romano di Jacopo Ferretti, «Studi romani», a. IV (1956), pp. 675-685. Le sorelle della Chiara erano Cristina (nata nel 1822, andrà sposa nel 1849 all’unico figBo di G. G. Belli, Ciro) e Barbara (nata nel 1824, maritata nel 1853).