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 2010  dicembre 08 Mercoledì calendario

LA SIGNORA DI CASA SELLERIO CHE LAVORAVA PER GLI ALTRI

Bisogna pur cominciare dicendo: Mi ricordo. Mi ricordo della volta in cui scherzammo sulla neolingua per cui gli aspiranti scrittori dovevano mandare i loro libri "su supporto cartaceo". Era il nuovo nome della carta. Elvira era intelligente. Era così intelligente da dissimularlo volentieri, specialmente con gli uomini importanti. Non faceva pesare quella circostanza indiscreta, che lei era più intelligente di loro. Il suo modo di dissimularlo era, oltre alla signorilità, un´arte di lusingare l´intelligenza di cui gli uomini importanti si sentivano dotati.
Ho conosciuto poche persone dal pensiero indipendente e dal carattere tenace come Elvira. La migliore riuscita di un´impresa comune, com´è per eccellenza una casa editrice, non è legata all´ambizione di ben figurare, ma all´ambizione di far figurare al meglio gli altri. Elvira era così sicura di sé che l´invidia non la sfiorava. Ci sono editori cui la grandezza dei propri autori fa ombra, e allenatori infastiditi dalla bravura dei loro campioni. Elvira desiderava che ciascuno dei suoi ospiti desse il meglio di sé e ne fosse ripagato. Ho detto ospiti, perché era una meravigliosa padrona di casa. Sicché con lei il fatto che il luogo in cui si scelgono e si pubblicano libri si chiami distrattamente casa, casa editrice, riprendeva un significato originario. Si stava come in una farmacia di paese, diceva Sciascia, e intendeva che nei paesi di una volta si stava in farmacia a conversare - gli uomini, almeno - come a casa propria. Elvira aveva due case, dai due lati della via Siracusa, e, salvo un cambio d´abito, era in ambedue la Signora. (Pronunciato così che si sentisse la maiuscola, non per deferenza, ma per evidenza).
Mi scrisse, una decina di anni fa: «Forse vado a Ragusa, spero di comprare una specie di fattoria vicino al mare dove penso di concludere la mia vita. E´ un bel sogno». Era uscita da tempo dalla tempesta che aveva messo a repentaglio la sopravvivenza della casa editrice. Era durata a lungo, la tempesta. Andrea Camilleri, che è persona di spirito magnifico, ha raccontato di essere arrivato al soccorso in extremis come il VII Cavalleggeri. Però nella ridotta di fort Alamo in cui era assediata dalle banche e dai rivali, e il cielo sul suo capo era nero di avvoltoi, Elvira aveva resistito per un tempo eroico, anche quando quella resistenza appariva come il capriccio patetico di una signora spaesata a questo mondo. Elvira fumava, leggeva come ogni giorno i suoi manoscritti, si strapazzava, fino all´ora dell´ennesimo appuntamento con un direttore di banca dal quale presentarsi impeccabile e distaccata, a prendersi la dilazione di cui aveva bisogno per contare su un´altra dilazione. Scherzavamo sulla graziosa richiesta della gran dama francese: «Ancora un minuto, signor boia».
I minuti durarono anni, e a quel punto il VII Cavalleggeri doveva pur arrivare. Dunque, era il 2002 più o meno, mi scrisse: «Ho comprato la casa in campagna, a Marina di Ragusa, vicino a quella di mia sorella. Occuparmi di renderla abitabile è ora l´unica cosa che mi piace e mi interessa –domani andrò perché piantano gli alberi, ulivi e carrubi». Mi accluse una fotografia, con un vasto spiazzo brullo e petroso: «Questo è il posto dove pianterò gli alberi». Mi piacerebbe mostrarvi quel bosco di ulivi e carrubi com´è ora, come aver ricevuto un biglietto che dicesse: «Vorrei fondare una casa editrice…», e scorrere a distanza di quarant´anni il catalogo della Memoria, fino a Il sorriso di Angelica, numero 833.
C´è un´espressione per me legata a mia madre, "essere in pensiero". Ecco: Elvira era in pensiero, in un modo che mi colpiva. Nei due sensi; che era inquieta e trepidante, e che era piena di pensieri. Non è così ovvio: ospitiamo per lo più i nostri pensieri in modo saltuario, volubile. Elvira sembrava distrarsi in infinite piccole incombenze – «innaffio le piante, cerco un telegiornale, prendo un libro, aspetto di addormentarmi…». E intanto, diceva, "rimugino". Mi dava l´impressione di voler sempre tenere assieme tutto quello che era stato e quello che avrebbe potuto venire. Non so come fosse quando era molto giovane. So com´era bella, perché lo mostrano i ritratti e perché era bellissima quando la conobbi. Presto decise di non piacersi, di ripudiare la ruggine, diceva, attraverso cui i suoi pensieri si districavano ora prima di prendere forma. Era di maggio, e in un mese di maggio - «che quando ero giovane mi piaceva definire meraviglioso» - si augurò di entrare finalmente in una vecchiaia calma, «senza più quei fastidiosi sobbalzi di giovinezza».
Faceva ora come se la sua vita si fosse fermata a guardare con trepidazione e dedizione le vite degli altri che cambiavano così tumultuosamente. C´era sempre stato qualcosa di intrepido nel suo affetto protettivo per le sorelle e i fratelli che la morte precoce di un´amatissima madre le aveva affidato, per i suoi figli diventati grandi quasi all´improvviso, così da sembrarle vulnerabili e delicati, e poi si diceva che forse bisognava solo guardarli andare nel mondo grande. L´apprensione per loro e per i nipoti e i loro compagni e amici era forse più semplicemente, si diceva, la sua paura: «La paura di una persona un po´ stanca, un po´ vecchia, un po´ pazza, quella paura di essere felici di cui abbiamo tanto parlato». La paura d´essere felici cede infatti alla paura che gli altri siano infelici. Lei si era come ritratta dal presente, dal suo presente, e se ne stava fra un affetto per il passato, sua madre e i ritratti di signora di un tempo venuto prima delle guerre, e la sensazione di un mondo minacciato per i suoi figli e i loro amori e, finalmente, per il piccolo Lorenzo arrivato a comandare sui suoi sortilegi.
Le era successo di essere la prima di sei fratelli. «Mi disperavo - raccontava - ogni volta che mia madre era incinta. La mattina presto una zia usciva per andare al mercato meno caro, mia madre invece usciva a mezzogiorno e faceva la spesa all´angolo. Rincasavano insieme e c´era il rito del caffè e della sigaretta, e quando si appartavano a chiacchierare furtivamente io mi disperavo: "Ci siamo, un altro fratello". Ogni volta mi vedevo decurtare la mia quota nel monte di amore di mia madre. La verità è che da lei mi sento sempre protetta, anche ora. Solo che dovevo essere grande. Anche mio padre mi diceva: Devo educare bene te, che servirai di esempio agli altri. Una delle ultime volte, era molto vecchio e ogni tanto faceva confusione, e mi aveva scambiato per mia madre, poi mi ha detto: "Ma se tu sei mia figlia e sei così vecchia, io come sono?"».
Negli anni del Consiglio di amministrazione della Rai Elvira era l´unica donna, ma lei preferì dirlo in un altro modo: ero l´unica non professore. Si adoperò per promuovere il talento delle persone e specialmente delle donne che lavoravano in Rai, non ne trasse nessun beneficio per sé. Prima ancora che immorale, le sarebbe sembrato di cattivo gusto.
Di quella impressione sul suo mettersi da un lato rispetto al presente faceva parte l´impiego del tempo. Aveva un´esistenza indaffarata nelle più diverse incombenze, e tuttavia spendeva ore in attività del genere "fare la calza". Non faceva la calza, ma riempiva puzzle di migliaia di pezzi. Faceva le parole incrociate, senza impazienza, e quando telefonava a mille chilometri di distanza per chiedere un suggerimento lo faceva più per amicizia che per smania di finire. Curava il giardino, e più esattamente lo visitava meticolosamente. Riordinava lettere, fotografie, cartoline, biglietti. Catalogava, a penna, i libri che erano stati della sua infanzia e giovinezza e che ricercava scrupolosamente, la collezione della Scala d´Oro o i Classici del ridere di quel gran Formiggini un cui motto - «Non copiare nessuno, ridi se ti copiano» - si addice assai alle copertine blu carta da zucchero della Memoria. Voglio dire che si prendeva, dentro il tempo travolgente del suo lavoro, un tempo lento gratuito e solitario.
Stava molto sola, Elvira, con quei pensieri che delle attività senza capo né coda si nutrono, e con la lettura. Leggeva per piacere, anche i manoscritti di cui decideva fidando nel proprio gusto, e i grandi libri che affrontano gli adolescenti e le donne di casa, I tre moschettieri e le memorie settecentesche e I misteri di Parigi e tutto Simenon. Questo tempo lento e come estratto dalla fretta dei giorni era la sua terra di nessuno fra passato e futuro, la sua presa di distanza dal presente esteriore. Una volta aveva detto che invecchiare pesa, perché vuol dire non sapere come andrà a finire. Più tardi disse che forse nemmeno questo era più vero, che forse era già andata a finire.
Non ho menzionato il nome: Sicilia. Non ce n´era bisogno. Elvira era in pensiero per i suoi ma anche per il mondo, e voleva, senza farsi illudere da ambizioni politiche, salvarne qualche pezzo, del mondo, il più prossimo a lei, persone e carrubi e rose, e anche quello più lontano dei libri e della bellezza, e degli oggetti ereditati e messi in salvo per un giorno altrui. In quella casa di Contrada Gaddimeli dalla quale si vede il mare e, in certe ore di vento e di luce, il lago ondulato della plastica che copre le serre, dove Elvira aveva confidato di morire, al tramonto di ogni giorno sedeva a lungo sulla grande terrazza a fumare e guardare, sola, in pensiero. Pensava a come era stato il mondo prima di lei, e quando lei era bambina e sua madre era viva. E a come sarebbe stato dopo di lei, il mondo di Lorenzo e dei figli di Lorenzo. Le palme insidiate dal punteruolo rosso, i ritratti di signora ottocenteschi. Stava sulla terrazza, ad aspettare il buio, in pensiero.