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 2003  dicembre 24 Mercoledì calendario

LA MIA ITALIA FRA GUERRA E CINEMA

(Intervista a Monicelli, Corriere della Sera del 2003) -

«La marcia su Roma l’ ho vista passare lungo via Nazionale dal balcone di casa D’ Amico. Loro, i grandi, erano giustamente scandalizzati. Io, bambino, sbagliando avvertivo il fascino di quegli uomini vestiti di nero, con il teschio sulla fronte e la scritta "me ne frego"; mi parevano eroi che andavano a fare la rivoluzione contro i borghesi come mio padre e i suoi amici». Ha visto passare molto altro, Mario Monicelli. È stato, racconta, cialtrone e nobile, inaffidabile e sincero, senza mai perdere l’ estro e il genio. Se quella di Sordi era la storia di un italiano, la sua è l’ Italia. Ogni frammento, un film. Nato una settimana prima della Grande Guerra, ha visto all’ opera guardie e ladri, soliti ignoti, armate Brancaleone, marchesi del grillo e borghesi piccoli piccoli; tutti amici suoi. Ha tre figlie da due donne diverse e vive solo, in un monolocale da studente - a 88 anni - nel rione Monti, l’ antica Suburra. «È una casa che piace alle donne». Non solo la casa. «L’ amore non è per sempre. Mi sono innamorato quattro, cinque volte, ho provato anche l’ amore filiale, ma le mie figlie le vedo pochissimo. Ho fatto più di 50 film, uno soltanto sulla famiglia». Si chiamava Parenti serpenti. Non risparmia critiche neppure al gruppo di cui pure fa parte. Monicelli la chiama la «comunità culturalborghese». Quella che prende il cinema troppo sul serio. «È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come fosse la bottega di Caravaggio. Il cinema è la settima arte; cioè l’ ultima. Non è niente, è una congerie, un accumulo di teatro, musica, fotografia. Almeno un tempo era un’ arte popolare. Ora il cinema italiano ha pretese di alta cultura; ma il borgataro va a vedere gli americani. E il cinema che non passa la prova del borgataro non ha futuro». «Mio padre era un giornalista molto noto, mia madre una contadina. Tommaso Monicelli era stato direttore dell’ Avanti! prima di Mussolini. Erano amici. Papà si schierò con i nazionalisti, le camicie azzurre, e appoggiò il Duce fino al delitto Matteotti. Poi passò all’ opposizione. Non poteva più firmare i giornali ma divenne direttore editoriale della Rizzoli, lavorò anche per Mondadori, che era nostro cugino. A casa venivano giornalisti come Missiroli che scrivevano su quotidiani fascisti ma in privato criticavano il regime, economisti come Maraviglia che ogni volta annunciavano che il fascismo sarebbe caduto in pochi mesi a causa degli errori economici e dell’ ignoranza di Mussolini. L’ uomo in effetti era un vero italiano, capace di coricarsi sui binari per fermare i treni che portavano i soldati verso la Libia e poi di comandare avventure coloniali». «Il Deserto della Libia», di Tobino, è il libro che Monicelli tiene sul tavolo. «Racconta un’ altra guerra che non ho fatto, e che forse diventerà un film. Il prossimo». Non è l’ impresa del 1911, ma il disastro del 1942. «Ogni volta dovevo imbarcarmi per l’ Africa, e non partivo mai. Prima mi avevano mandato a Pinerolo, alla scuola di cavalleria. Poi, quando si accorsero che la cavalleria era stata sostituita dai carri armati, mi mandarono alla scuola carristi. La guerra continuava, e per noi era un tormento. Volevamo assolutamente perdere. Ci sollevavano le rare, piccole vittorie inglesi, di cui leggevamo sull’ Osservatore Romano; per il resto arrivavano solo notizie di trionfi tedeschi. Quando i nazisti spazzarono via la Jugoslavia ci mandarono a Zagabria. Truppe d’ occupazione. Per fortuna serbi e croati, titini e ustascia si disinteressavano degli italiani per combattersi tra loro, al mattino capitava di trovare un cadavere legato a un albero e ferrato come un cavallo. Poi finii a Napoli, da ufficiale, in attesa dell’ imbarco. Ma nel Mediterraneo non si passava più, era diventato un lago inglese. Io poi mi ero reso indispensabile al colonnello perché facevo la carogna, giravo la notte a denunciare le reclute che abbandonavano la caserma per andare a dormire in famiglia, ricevevo lettere anonime: ti spareremo nella schiena. Venne prima l’ 8 settembre. Un fiume di militari che saliva o scendeva, settentrionali e meridionali tornavano a casa, c’ erano divise per cento carnevali, da Napoli a Roma impiegai una settimana, gettandomi nei fossi per evitare gli aerei che scendevano a mitragliare. Però "Tutti a casa" l’ ha fatto Comencini, che quelle cose non le aveva viste». «Del Duce penso tutto il male possibile, ma di una cosa bisogna dargli atto: è stato l’ inventore del cinema italiano. Aveva imparato dai sovietici - Eisenstein, Pudovkin - l’ importanza della propaganda per immagini. Però il cinema in cui lavoravo da ragazzo non era votato alla propaganda. Si poteva girare quel che si voleva, a patto di evitare omicidi e adulteri. Così le storie di sesso erano ambientate curiosamente in Ungheria. Ci si convinse non so come che le ungheresi fossero tutte zoccole. La nostra Budapest era il quartiere Coppedé, con quelle case neoromaniche che evocano la Mitteleuropa. I nomi si sceglievano sulla guida del telefono. Ma il più bello in cui mi sia imbattuto era il nome del capo partigiano a cui portavo messaggi e manifesti nella Roma occupata: Comunardo Braccialarghe. Nessun collega ha mai inventato un nome così». «C’ era solo il cinema, nell’ Italia analfabeta e poverissima del dopoguerra. Eravamo convinti che Hollywood ci avrebbe massacrato, pensavo di chiedere un posto ai cugini Mondadori; invece il miracolo di "Roma città aperta" fece del cinema italiano un’ industria fiorentissima, con un solo nemico, la censura. Non sono affatto grato a Togliatti per l’ amnistia, così come non mi scandalizza che dopo la guerra sia stato tolto di mezzo qualche fascista; la verità è che l’ epurazione non ci fu, i funzionari rimasero gli stessi. Si segnalava per zelo un fascista arrivato in barchetta da Malta ad annunciare: "Duce, vi porto la mia isola". Al Duce queste pagliacciate piacevano, così l’ aveva fatto capo della censura. Nei film non si poteva parlare male della polizia, e neppure mettere una guardia e un ladro sullo stesso piano. Vedo che la cattiva abitudine della censura ritorna nell’ Italia di oggi, e questo non mi piace». Non è entusiasta della politica, Monicelli. «Però la trovo piena di maschere cinematografiche. Bisogna assolutamente fare un film su Bossi e i leghisti, magari sul commando che salì sul campanile di San Marco, una cosa che neanche Brancaleone. Vietato dimenticarsi Castelli, il più antipatico di tutti. E Taormina», sul cui conto il maestro della commedia all’ italiana esprime un giudizio che si preferisce non riportare per evitargli un processo. «E Fini, che pare un manichino della Rinascente, di quelli che piacciono alle signore che guardano le vetrine. L’ unico inimitabile è Berlusconi. Berlusconi è l’ interprete di se stesso; neppure Sordi o Tognazzi lo farebbe così bene. Berlusconi è più grande di Totò». Neanche la sinistra lo convince, tranne Bertinotti; «perché è simpatico, e perché in fondo io resto comunista. Sono stato socialista finché è stato possibile, poi da Craxi in poi ho votato Pci. Il comunismo è un’ utopia meravigliosa, realizzata in modo orribile; anche se dovremmo ricordarci che senza Stalin ora saremmo tutti nazisti. Invece Benigni, in una delle sue genuflessioni alla Chiesa e all’ America, ha fatto liberare Auschwitz da un carro armato americano. Roberto! Auschwitz è stata liberata dall’ Armata Rossa. E poi di comici toscani non se ne può più». L’ America lui non la ama, «le sono grato per aver contribuito a liberarci, ma la sento distante per ragioni di gusto, che sono stupide, sono le peggiori, però ci sono». Dei colleghi di oggi ha stima, però qualche difettuccio lo trova pure a loro. «Mi piace Ozpetek, ma ogni suo film assomiglia al precedente: alla fine si scopre che sono tutti froci. Giordana ha fatto un buon lavoro sul ’ 68, però di superficie, un po’ piatto, come un fumetto. Moretti ha una sua cifra, con un difetto: è troppo antipatico, fisicamente. Il contrario di Benigni, che era naturalmente simpatico prima dell’ incontro con il clero, con la moglie, con i miliardi. Anche questa è corruzione. E poi ha commesso un errore fatale: disturbare Pinocchio. Pinocchio ha punito tutti quelli che c’ hanno provato, musicisti, scrittori, produttori; con Pinocchio ha fallito persino Disney, non ci si poteva attendere di più da Benigni. Virzì e Muccino erano partiti bene, ma un regista non deve politicizzarsi troppo; se ha una posizione politica salda, ancestrale, fin dalla giovinezza, verrà fuori senza bisogno di forzature, senza film a tesi. Sono solidale con la Guzzanti, però il comico deve badare a far ridere, non deve temere che non si capisca cos’ ha dentro. Soprattutto, non deve essere troppo intelligente. Nella Grande Guerra, Gassman è dominato da Sordi. Perché Gassman è l’ attore shakespeariano che nell’ occasione fa la parte del cialtrone milanese. Sordi non fa una parte, Sordi è il cialtrone romano. Non suscita tenerezza, è repellente, prevaricatore, bugiardo; l’ italiano perfetto». Ecco le regole della commedia all’ italiana, «le stesse dai tempi di Boccaccio, Ruzante, Machiavelli; le stesse del mio primo vero film, Totò cerca casa; le stesse del più grande di tutti, Pietro Germi, dimenticato anche perché non era di sinistra come noi bensì socialdemocratico, devoto a Tanassi, non ho mai capito perché. L’ argomento è drammatico, trattato con umorismo. Il fine non è lieto. Il fondo è sempre amaro, pungente, a volte atroce; la commedia dell’ arte nasce dalla fame e dalla morte, costringe ad arrangiarsi e a sopraffarsi; e da lì scaturisce il divertimento, è quella la vera catarsi. Ridere della fame e della morte, e lasciare gli stranieri a chiedersi, come sempre senza risposta: ma come fanno?». Aldo Cazzullo