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 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

Il latte crudo colpisce ancora Due anni fa un’inchiesta del Riformista faceva esplodere lo scandalo del latte crudo non pastorizzato

Il latte crudo colpisce ancora Due anni fa un’inchiesta del Riformista faceva esplodere lo scandalo del latte crudo non pastorizzato. Questa moda ecologicamente corretta, sostenuta da Coldiretti, propagandata da Beppe Grillo e da Slow Food, si era diffusa in modo incontrollato soprattutto nel Nord Italia, senza che i consumatori fossero stati avvisati dei pericoli. Nel giro di una settimana, il 10 dicembre del 2008, il ministero della Salute correva ai ripari, con un’ordinanza che ha imposto sui “bancolat” la scritta: “Prodotto da consumarsi solo dopo bollitura”. Ora l’ordinanza sta per scadere ed è in procinto di essere reiterata. Tutto bene dunque? Non proprio. I casi di gravi infezioni alimentari associati al consumo di latte crudo continuano a verificarsi, soprattutto a danno dei più vulnerabili, i bambini. Nel 2010 ben 41 piccoli sono stati colpiti dalla Seu (sindrome emolitico uremica), una grave malattia che compromette la funzionalità renale, risultando talvolta fatale, causata da particolari ceppi del batterio Escherichia coli capaci di produrre una potente tossina. Evidentemente l’obbligo di bollitura va bene, ma non basta. Nell’aprile del 2011 si celebrerà il primo processo scaturito dall’inchiesta sul latte crudo della Procura di Torino. Raffaele Guariniello ha emesso un avviso di garanzia nei confronti di un allevatore di Pianezza, accusato di immissione in commercio di sostanze alimentari nocive perché nel suo distributore è stato rinvenuto il batterio Campylobacter jejuni. «È una delle cause più frequenti di infezione intestinale. Può causare gravi forme di enterite, ma anche artriti e sindromi neurologiche. La sua presenza nel latte è un pericolo per la salute pubblica», spiega Alfredo Caprioli dell’Istituto superiore di sanità, che ha fatto da consulente alla Procura. Guariniello ha aperto anche un filone relativo alla Seu, indagando sulla morte del piccolo Marco, due anni, avvenuta nel settembre del 2010. u segue dalla prima pagina na morte forse causata da una contaminazione ambientale nella cascina di famiglia, dove vengono allevati bovini ma dove non è prevista la vendita diretta di latte. All’attenzione della Procura ci sono anche altri casi recenti, tra cui quello della piccola Greta. Un anno di età, figlia di consumatori abituali di latte crudo, nell’agosto del 2010 la bambina è finita in dialisi. Il latte è un terreno di coltura ottimale per una lunga lista di germi che possono essere presenti anche in capi apparentemente sani oppure possono contaminare il prodotto durante e dopo la mungitura: dallo stafilococco, allo streptococco, all’agente della paratubercolosi che potrebbe essere implicato nel morbo di Crohn. I controlli sul prodotto, purtroppo, non possono garantirne la salubrità. Innanzitutto perché i comuni esami di laboratorio spesso non sono in grado di rilevare le contaminazioni. E poi perché nel caso del batterio che causa la Seu il passaggio dalle feci al latte è sporadico, perciò lo stesso animale che sembra in regola oggi può fornire latte contaminato domani. Seppure la contaminazione riguardasse uno o due distributori su mille, come indicano le analisi della Regione Lombardia, questo significherebbe che in media ogni giorno dell’anno da qualche parte c’è un distributore che può erogare centinaia di dosi potenzialmente contaminate. Il temibile E. coli O157 è infettivo anche a basse concentrazioni e a peggiorare le cose c’è il fatto che una contaminazione minima all’origine può aumentare considerevolmente se si interrompe la catena del freddo dalla stalla al distributore alla tavola. Un modello matematico elaborato dall’Istituto Zooprofilattico delle Venezie indica nel sistema di mungitura il principale tallone d’achille, evidenziando i parametri su cui andrebbero rafforzati i controlli. Un’altra opzione è quella di intensificare i test sugli animali, senza accontentarsi di quelli sul prodotto finito. In definitiva, secondo il parere rilasciato dal Consiglio superiore di sanità nel 2009, «il processo produttivo non prevede interventi tali da garantire la completa assenza di agenti patogeni» e un altro punto debole è che «le fasi finali del processo di commercializzazione, importanti ai fini della sicurezza igienico-sanitaria, sono demandate al consumatore». La conclusione è semplice: se non si vuole vietare la vendita di latte crudo, come fanno tanti paesi, bisogna informare la gente sui rischi e sulle modalità di minimizzarli. Magari integrando la scritta relativa all’obbligo di bollitura, come suggerisce il Consiglio superiore di sanità. Il buonsenso suggerirebbe di segnalare che il prodotto può contenere microrganismi pericolosi soprattutto per bambini, anziani e immunodepressi. Ma una simile iniziativa incontrerebbe l’opposizione dei produttori, che sul web continuano a propagandare il latte crudo come sano, genuino, utile contro le allergie e via continuando. Accade addirittura che su alcuni distributori, accanto alla scritta imposta dall’ordinanza, ne vengano esposte altre di senso contrario. Della campagna di comunicazione promessa dal sottosegretario Francesca Martini due anni fa e mai realizzata, dunque, c’è un estremo bisogno. I produttori si fanno scudo del fatto che il nesso causale tra il consumo di latte crudo e la Seu è difficile da dimostrare. In effetti quando un bambino finisce in ospedale non è quasi mai possibile recuperare un campione del prodotto consumato e analizzarlo. Ma l’epidemiologia può superare anche questo ostacolo: Caprioli censisce dal 1988 i casi pediatrici di Seu e dal 2005 indaga sui possibili fattori di rischio. I suoi dati evidenziano un legame statisticamente significativo con il consumo di latte crudo (un altro pericolo sono le piscine private). Osservando l’incidenza della Seu nel tempo si intravede l’aumento dei casi negli anni del boom dei distributori, mentre dopo l’ordinanza si profila una leggera diminuzione degli episodi dovuti al ceppo più comune nei bovini (E.coli O157). Ma la lettura cronologica dei dati è complicata dalle lacune del sistema di sorveglianza. Per la Seu, infatti, non esiste un obbligo di notifica, perciò la rilevazione dei casi dipende dalla presenza in ospedale di medici sensibili al problema e pronti ad attivarsi su base volontaria. A questo problema, come riconosce il Consiglio superiore di sanità, bisogna rimediare, così come alla mancanza di informazioni precise sul business del latte crudo. Due anni fa il ministero stimava che ne venissero venduti sei milioni di litri l’anno, ma c’è chi parla addirittura di trentadue milioni di litri. Secondo il Consiglio superiore di sanità il consumo potrebbe interessare centomila nuclei familiari. Nemmeno l’industria del latte dispone di dati certi, come ci ha dichiarato un’autorevole fonte: «Leggiamo di chiusure, ma si continua a parlare di milleduecento distributori aperti, mentre si lamenta che le vendite dopo l’ordinanza si sono dimezzate. I servizi veterinari regionali conoscono sicuramente il numero e le collocazioni dei distributori. Ma i volumi di vendita per singolo apparato sono difficilmente verificabili. Come si fa a garantire la rintracciabilità di un prodotto in queste condizioni?».