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 2010  dicembre 09 Giovedì calendario

UNIVERSITA’ AL BUIO


Studenti di tutto il mondo, non gettate la croce sul povero avv. Gelmini. Come potete pensare che si possano produrre autentiche riforme del sistema formativo senza una visione della società e del suo futuro? Una propria visione, sia chiaro. La politica culturale non consiste nell’adattare le strutture formative a quella che si considera qui-e-ora la domanda di lavoro. Così come la politica in genere non dovrebbe consistere nell’inseguire quello che la gente dice di preferire attraverso i sondaggi. E quando una riforma della scuola cerca passivamente di adeguarsi alla struttura economica, fallirà cento volte l’obiettivo, poiché le trasformazioni culturali, organizzative, produttive "anticiperanno" sempre qualsiasi "offerta" didattico-scientifica.
Le grandi "scuole" che hanno funzionato nascevano tutte da un’idea generale della società, di come i rapporti tra classi e ceti dovessero essere ordinati, della "missione" che si immaginava per il proprio Paese. Tutto ciò oggi da noi è clamorosamente assente - e pretendete una riforma dell’Università? - là dove classe politica e élites dirigenti in generale versano nella crisi in cui versano? Anche troppo, credete, il bricolage stra-prolisso della Gelmini, prodotto tipico del burocratese centralistico-ministeriale. La nostra ministra invita, poi, giustamente, il "movimento" a prendersela coi "baroni". Dio solo potrebbe contare i peccati di costoro nell’uso a volte dissennato delle risorse per la ricerca, nella proliferazione di titoli assurdi, nella disseminazione delle sedi, nella conduzione dei concorsi. Ma proprio la cosiddetta riforma è il loro miglior alleato!
Che cosa, infatti, essa cambia? Dal potere dei rettori, all’ordinamento concorsuale, al mantenimento delle fasce della docenza, la logica corporativa rimane intatta. O ci si vuole narrare che la presenza di tre esterni nel Consiglio di amministrazione stravolgerà qualcosa? L’unica novità in qualche misura apprezzabile è l’istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale. Una specie di vecchia libera docenza, ma destinata, poiché decade dopo quattro anni, a creare spasmodiche attese e intrallazzi di ogni tipo. Alla faccia dell’autonomia didattica e delle esigenze del tutto specifiche dei vari atenei e dei vari dipartimenti e facoltà, tutto viene, come da tradizione patria, iper-regolamentato.
Un delirio di norme centralistiche sull’organizzazione del sistema: orari, mobilità, premi, crediti, esoneri, minimi e contro-minimi, nulla sfugge al vigile occhio del Riformatore, affinché tutto resti esattamente come prima. E cioè un’università dove gli studenti passano buona parte del loro tempo a elaborare piani di studio e a fare esami.
Il capolavoro è raggiunto nel capitolo dei sistemi di valutazione. Qui non bastava il marchingegno barocco inventato, mi pare ricordare, dal governo Prodi, dell’Agenzia Nazionale di Valutazione, ancora lungi dal funzionare, dove alcuni fortunati, selezionati chissà come da un piccolo esercito di auto-candidati, dovrebbero vigilare su tutto: dalle politiche di reclutamento alla definizione dei livelli minimi di prestazione, dai sistemi di accreditamento alla efficienza dei risultati conseguiti dalla didattica, ecc. ecc. No, ciò non appariva sufficiente - e così si è introdotto pure un Comitato nazionale dei garanti, al fine di "garantire" le procedure di valutazione per la selezione dei progetti di ricerca. Tale Comitato sarà composto da sette studiosi, tra i quali dovranno esservi "almeno due donne e due uomini" ( sic!). E gli altri tre? A scelta.Tutte chiacchiere? No, nient’affatto. Un serio dramma. È del tutto evidente, infatti, che il vero dominus di tutta l’operazione è il ministro dell’Economia. Ovvero che ogni intervento di qualche concretezza è subordinato alle disponibilità finanziarie in mano al nostro Super-ministro. Forse si troveranno (in parte) i soldi per sistemare i ricercatori con i concorsi per associati, ma per tutto il resto (finanziamenti, quota premiale, incentivi per l’internazionalizzazione, politiche attive per il diritto allo studio) è notte.
Il sigillo è palese nell’ultimo articolo: il ministro dell’Economia è autorizzato ad apportare con propri decreti le variazioni di bilancio necessarie a finanziare l’applicazione della riforma. Al centralismo organizzativo e didattico che la legge non scalfisce si aggiunge definitivamente quello finanziario. Esempio luminoso del federalismo berlusconiano-leghista. Ho provato a leggere i contro-testi di riforma avanzati dalle opposizioni e non sono stato illuminato d’immenso. Il modello rimane quello centralistico-ministeriale che è, insieme alla carenza fisiologica di fondi, il principale nemico della nostra scuola.
La vera autonomia rimane cieca speranza. E qualcuno dovrebbe spiegare che cosa sia autonomia, se non libertà delle diverse sedi di organizzare la propria offerta didattica, di combinare dipartimenti e facoltà secondo le proprie esigenze, di perseguire le proprie finalità reclutando una docenza coerente con esse. Non si comprende perché la valutazione dell’efficienza di un’università debba avvenire in modo diverso da quella di una qualsiasi impresa. Quale Agenzia di valutazione decide se Marchionne è bravo oppure no? E inoltre sulla base di parametri che Marchionne può non aver mai condiviso? Il totale paradosso di questa riforma, come di tanti altri semi-aborti passati, sta esattamente in questo: che si vorrebbero scimmiottare logiche di mercato, mentre si conservano assetti da arcaico statalismo. E la ragione sta nel fatto che non può esservi autentica autonomia senza autonomia sostanziale nel finanziamento. Missione impossibile, fino a quando l’università pubblica continua a dipendere dai fondi ministeriali. Una modesta proposta? Eliminiamo il valore legale del titolo di studio e vedrete che un po’ di mercato, "buono" davvero, comincerà a entrare... basta una leggina, di un solo articolo. Ah, quanto è difficile il semplice, sigillo del vero!