Federica Bianchi, L’espresso 9/12/2010, 9 dicembre 2010
LA FEBBRE SPAGNOLA
In uno slargo del marciapiede lungo la via Doctor Cortezo, una breve passeggiata dalla Porta del Sol, a volte le due file si incrociano. Ci sono gli intellettuali poliglotti, uno dietro l’altro, le mani infilate nella tasca della giacca di pelle, in attesa di comprare un biglietto al cinema Ideal, un multiplex dove si proiettano sette film, alcuni in lingua originale. E poi ci sono gli ex muratori e le ex cameriere senza più alcun lavoro, foruncoli e rughe sui volti trascurati, le spalle avvolte in coperte scure lacerate alle estremità, che aspettano il loro turno per ricevere uno dei 380 pasti della mensa pubblica Ave Maria. Fisicamente le due file si sfiorano, mentalmente si evitano. Sono i due volti della Spagna di oggi: gli uni terrorizzati all’idea che possa capitare anche a loro, gli altri flagellati dal ricordo di un passato migliore. Perché sono già trascorsi quasi tre anni dalla fine del miracolo economico, anni che hanno rubato il futuro a due milioni e mezzo di persone, per lo più immigrati e giovani, ma sono ancora in tanti quelli che non riescono a rassegnarsi al fatto che non sarà più possibile tornare indietro, che la crisi sia qui per restarci. "Quando ho cominciato l’università, l’architettura era una professione fantastica che garantiva un futuro meraviglioso", spiega nello studio collettivo che ha messo insieme a una trentina di ragazzi come lui Alberto Roy, 27 anni, una felpa verde su un paio di jeans: "Ma sono stato ingannato: adesso gli architetti sono proletari". Poi aggiunge, la voce resa dura dalla rabbia: "Non esiste che alla mia età, con il mio grado di istruzione, non guadagni abbastanza per comprarmi una macchina, una casa, e mettere su famiglia".
Gli anni in cui Roy frequentava l’università erano quelli dell’euforia da ingresso nell’euro, accompagnati dalle profonde riforme sociali che hanno portato le donne massicciamente nel mercato del lavoro, aumentando il reddito familiare. Con i tassi d’interesse magicamente scesi dal 15 al 3 per cento, tra il 1996 e il 2007 la Spagna costruiva una media di 430 mila case all’anno - più che la Francia, la Germania e l’Italia messe assieme. Intanto i salari crescevano a un ritmo del 30 per cento, cinque volte la media europea. "Si convertivano tutti in costruttori perché era un business sicuro", ricorda Ivan Somosa Mena, 30 anni, ex imprenditore, ora aspirante musicista: "Mio padre aveva la sua azienda edile e io la mia. I prezzi delle abitazioni salivano così rapidamente che con i soldi del mutuo potevi comprarti anche un’auto". All’apice della crescita economica, erano diventati ricchi persino gli abitanti del disperato paesino di Villacanas, nella provincia di Toledo. In 10 mila anime si erano trovati a fabbricare oltre 11 milioni di porte, il 60 per cento della produzione nazionale, guadagnando tutti insieme 600 milioni di euro l’anno. Erano i giorni in cui lo straordinario era diventato normale: "I migliori anni degli ultimi cinque secoli", li ha recentemente definiti l’ambasciatore spagnolo negli Usa.
Poi lo scoppio della bolla, e dei sogni non restano che frammenti: le case rimangono invendute, i cantieri chiudono, le grandi imprese come Telefonica licenziano e trasferiscono le sedi in periferia. Perfino i turisti europei smettono di affollare le spiagge, anche loro a dieta come tutto il Continente. In Spagna trovare lavoro diventa impossibile. "Ho inviato il curriculum perfino ad Andorra perché non voglio perdere la speranza", racconta Ana Ureno Castellino, 46 anni, ex cameriera, ex portinaia ed ex operaia, mentre aspetta in fila il suo turno alla mensa dell’Ave Maria. II livello di disoccupazione è tornato quello dei primi anni Novanta, quando superava il 20 per cento. Gli immigrati hanno cominciato a fare le valige, dopo una decade in cui l’economia aveva saputo assorbirne cinque milioni - percentualmente il numero più elevato dell’Europa continentale - senza scatenare fobie razziste. Il governo socialista del premier Zapatero, un animale politico più che un buon amministratore, ha tentato di arginare l’avanzata dei disoccupati investendo in massicci lavori di riqualificazione edile: la spesa statale è aumentata del 7,7 per cento l’anno a partire dal 2005. Risultato: il deficit pubblico, complice anche la diminuzione delle entrate, è volato all’11 per cento del Pil. Soltanto i sussidi di disoccupazione, i più generosi d’Europa, costano a Madrid 32 miliardi di euro l’anno.
Proprio grazie ai 700 euro che da dicembre riceverà mensilmente per un anno dallo Stato, Lidia, una signora colombiana di 42 anni, potrà sperare di riscattare almeno l’orologio del suocero che ha impegnato questa estate, al culmine della disperazione. "Ho perso il lavoro in Telefonica un anno e mezzo fa", racconta sulle scale di uno dei tanti Vendo Oro che affollano la via Montera: "Da allora non ne ho trovato un altro. I 1.300 euro che guadagna mio marito non bastavano a pagare il mutuo da 1.700 euro della casa che ci eravamo comprati. Ho tentato di salvarla con i gioielli di famiglia, non ci sono riuscita".
Se non torna a crescere, sarà la Spagna a perdere una buona parte dei gioielli (economici) accumulati negli ultimi 15 anni. "Il rischio è quello di un ritorno al passato, con un livello di vita che fra tre anni sarà uguale a quello che avevamo dieci anni fa", spiega Emilio Ontiveros, presidente degli Analisti finanziari internazionali. "In Spagna la disoccupazione scende quando il Pil sale intorno al 2 per cento, ma quest’anno la crescita non arriva allo zero", aggiunge l’economista Victor Perez Diaz, specializzato in analisi socio-economiche: "La gente crede che usciremo dal tunnel in 4-5 anni: per me ce ne vorranno almeno dieci".
I mercati finanziari se ne sono accorti, e dopo avere costretto Grecia e Irlanda a chiedere aiuto all’Europa, hanno preso di mira la Penisola Iberica. Sono in pochi a non pensare che il Portogallo sarà la prossima vittima. Ma la grande sfida è la Spagna, la quarta economia europea, subito dopo l’Italia, con un contributo alla ricchezza dell’area euro dell’11,7 per cento. Gli economisti concordano che i fondamentali sono in ordine: il debito pubblico intorno al 70 per cento del Pil è inferiore alla media europea, le grandi banche sono solide, probabilmente capaci di assorbire l’incognita immobiliare, le grandi multinazionali continuano a esportare. Ma, con un deficit galoppante, un tasso di disoccupazione doppio rispetto all’Europa e una crescita nulla, è il futuro del Paese a spaventare i gestori internazionali. A differenza che in Irlanda e in Grecia, qui potrebbe essere la crisi economica a scatenare quella finanziaria, e non viceversa. "Da ora fino a giugno vivremo sulle note della "Traviata"", scherza Perez Diaz: "Per alleviare la tensione dei mercati il governo dovrà davvero attuare le riforme promesse a Bruxelles e aumentare la trasparenza dei conti".
Non sarà facile. Il tallone di Achille spagnolo sono da una parte un debito estero pari al 170 per cento del Pil (sommando l’indebitamento pubblico e privato in mani straniere) che rende il Paese economicamente dipendente dagli investitori esteri, e dall’altra la struttura delle Casse di risparmio regionali, le grandi responsabili del credito facile, gestite per anni con logiche esclusivamente politiche dalle amministrazioni locali, e ora indebolite da una valanga di immobili impossibili da vendere alla valorizzazione di bilancio. Senza contare che si chiede di attuare il prima possibile la riforma delle pensioni (qui mai tentata) e una più profonda riforma del mercato del lavoro a un governo in grave deficit di popolarità che si appresta ad affrontare la prossima primavera le elezioni amministrative e l’anno successivo quelle nazionali. Politicamente un suicidio.
"Zapatero non ha ancora perso la speranza, crede di avere margini politici ed è certo che l’Europa aiuterà la Spagna", spiega Perez Diaz: "Non getterà la spugna fin quando non sarà mangiato dai mercati". Secondo Juan Ignacio Crespo, direttore europeo di Thompson Reuters, i mesi di febbraio e marzo saranno cruciali per capire se anche la Spagna sarà costretta a chiedere l’aiuto dell’Europa: "Considerando che l’economia portoghese è piccola e che le banche spagnole detengono 108 miliardi di dollari del suo debito, un eventuale attacco finanziario in primavera sarà diretto congiuntamente a Portogallo e Spagna".
Si tratta di un’eventualità che fino a qualche giorno fa terrorizzava politici e banchieri. Eppure si sta facendo avanti la sensazione che, se anche la crisi finanziaria colpisse i paesi più grandi, ed è un’ipotesi ancora remota, potrebbe non essere la fine del mondo, e tantomeno quella dell’euro. La nostra moneta unica è in un processo di costruzione che, fin dall’inizio, è stato caratterizzato da cadute e riprese. "Nel 1993 il sistema monetario europeo era dato per morto, ma nel 1998 nasceva l’euro", spiega Crespo: "Oggi abbiamo una moneta unica senza avere un mercato unico del debito, fatto che la rende debole". Paradossalmente questa crisi potrebbe rafforzare l’unione monetaria europea facilitando la creazione di una Cassa comune del debito, e poi di un unico ministero del Tesoro, dovesse anche essere a "sovranità reversibile", come la definisce Crespo, in cui Bruxelles avrebbe il potere di redarre il budget di un paese dell’Unione quando questi si trovasse in una posizione fiscalmente debole. Fantascienza? Non proprio. A oggi il budget 2011 di due paesi europei è stato praticamente dettato dalla Ue, e le nuove regole sul salvataggio dei paesi dell’Unione stabilite dalla Germania hanno compiuto una rivoluzione storica, obbligando per la prima volta gli investitori privati ad assumersi il rischio del debito nazionale. Con un pizzico di ottimismo, potremmo essere agli albori di una nuova fase, quella dell’Euro 2.