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 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

«Non sei maturo per fare il prete». E lui si uccide - Un giovane diacono di origi­ni­pugliesi ma residente a Orvie­to, presso il seminario, si è suici­dato gettandosi dalla rupe sulla quale la città è stata costruita

«Non sei maturo per fare il prete». E lui si uccide - Un giovane diacono di origi­ni­pugliesi ma residente a Orvie­to, presso il seminario, si è suici­dato gettandosi dalla rupe sulla quale la città è stata costruita. Il suo nome: Luca Seidita. Le ragio­ni del gesto sono state scritte dal ragazzo in una lettera, scritta al computer, ritrovata nella sua ca­mera: il Vaticano aveva rinviato la sua ordinazione sacerdotale ritenendo che non fosse ancora pronto, e lui (il cui cammino se­minariale aveva già conosciuto qualche intoppo) non ha retto all’umiliazione. Nella lettera, Seidita spiega che diventare sacerdote era la ra­gione della sua vita, poi chiede perdono a tutti e si dice coscien­te che il suo­gesto non è giustifica­bile cristianamente. Appare for­te in lui la delusione, tanto che parla di una distinzione tra «Chiesa»e«istituzione»,tra la re­l­igione e gli uomini che la ammi­nistrano. Seidita parla anche del­la propria fragilità: dato, questo, confermato da quanti lo cono­scevano, che lo descrivono co­me una persona di grande sensi­bilità. Questo profilo ha fatto anche spuntare una pista gay, che però è stata ufficialmente smentita. Si chiude qui la prima parte, mesta fino alle lacrime, di que­sta storia, nella quale i conti tor­nano fin troppo. Sensibilità spic­cata, fragilità psicologica, molte delusioni alle spalle scavano in lui una voragine tra l’idea pura del servizio di Dio e la grossola­na incomprensione umana, rap­presentata dal Vaticano. In realtà i punti oscuri perman­gono: non tanto l’ipotesi che fos­se omosessuale (che non è in ogni caso una causa impediente al sacerdozio: lo sarebbe la prati­ca, non certo la tendenza) quan­to la lettera scritta al computer, così completa in tutte le sue par­ti, così esageratamente chiara. E poi tutta questa fretta di chiu­dere il caso come caso di suici­dio. Non che ci sia da dubitare della buona fede degli inquiren­ti, però su un caso come questo, prima di chiudere le indagini sa­rebbe meglio compiere tutti gli accertamenti possibili. Resta, per adesso, lo strazio per la morte di questo giovane. Al quale subentra però anche un certa rabbia alla lettura delle dichiarazioni del Vescovo di Or­vieto, mons. Giovanni Scanavi­no, grande amico del povero Lu­ca. Scanavino precisa infatti, nel­le sue dichiarazioni dopo il fatto, che era stata la Santa Sede, per mezzo di un fax, a comunicare il rinvio dell’ordinazione di Seidi­ta in quanto «non maturo» per fare il prete.Per lui,viceversa,Lu­ca «era pronto a diventare pre­te ». Ho riletto queste parole più e più volte perché credevo di aver capito male. Invece avevo capi­to bene. Voglio immaginare che il dolore per la perdita di un caro amico abbia sconvolto la mente di mons. Scanavino al punto da indurlo a dire un’enormità simi­le. Come se lo stesso suicidio (sempre, come detto, che le co­se siano andate davvero così) non fosse la dimostrazione ma­tematica che la Santa Sede ave­va perfettamente ragione. Pur­troppo è chiaro come il sole, sen­za possibilità di discussione, che Seidita non era affatto pronto per fare il prete, perciò mi stro­piccio gli occhi leggendo le paro­le di Scanavino, il cui senso - se un senso possono avere - è solo questo: che siamo nella società dello spettacolo, nella quale cia­scuno può dire tutto quello che gli passa per la testa (o dalle parti della testa) a patto che le sue pa­role lo accreditino da qualche parte. Tutti dobbiamo accredi­tarci da qualche parte, tutti dob­biamo p­rocurarci il lasciapassa­re per avere un posto nella socie­tà. Anche i vescovi. Così mons. Scanavino, incurante della per­fetta assurdità delle sue parole, si accredita come vescovo mo­derno, la cui missione pastorale non lo esime dall’assumere una posizione critica nei confronti di ambienti ecclesiastici insensibi­li e fiscali. Anni fa scrissi un ro­manzo nel quale una ragazza mollata dal suo ragazzo sperava di riagganciarlo facendosi mette­re incinta da un altro (non sto a spiegare il suo contorto ragiona­mento). Il titolo di quel libro, La nuova era, voleva richiamare l’attenzione non solo e non tan­to sulle pratiche new age, quan­t­o sulla tragica realtà di un disse­sto della ragione nella nostra epoca, in cui i discorsi non han­no senso perché sono veri, ma per la posizione che fanno assu­mere a chi li tiene, per cui si può affermare qualunque cosa e do­po cinque minuti il suo contra­rio senza porsi eccessivi proble­mi. Le parole di mons. Scanavino inquietano non poco: non sol­tanto perché fanno una questio­ne di divergenze di valutazione davanti a un povero ragazzo morto, ma perché la loro assurdi­tà, il loro disprezzo dell’eviden­za dei fatti dimostrano uno stato di dissipazione della ragione che non può non comportare una dissipazione del patrimo­nium fidei, che ha nella ragione, oltre che nella Rivelazione, il pro­prio fondamento. D’altra parte quelle stesse parole potrebbero portarlo in qualche talk show im­portante: in fondo è portatore di una testimonianza diretta e di una posizione «forte» nei con­fronti della Santa Sede. Ci sem­bra che per un’ospitata in tv pos­sa bastare.