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 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

Monicelli e gli avvoltoi del suicidio - Che pena vedere gli avvoltoi svolaz­zare sul corpo suicida di Mario Monicel­li

Monicelli e gli avvoltoi del suicidio - Che pena vedere gli avvoltoi svolaz­zare sul corpo suicida di Mario Monicel­li. Non è morto neanche da due giorni e già il suo gesto disperato e tremendo vie­ne usato come testimonial per battaglie civili e propagande politiche. Che brutto vedere la Camera dei depu­tati diventare palestra del tetro ideali­smo dei radicali e del lugubre antiberlu­sconismo veltroniano. Non avrei mai vo­luto trattare di bipolarismo davanti al morire. È barbarico, è disumano infieri­re sui morti, i morenti e i viventi fino a questo punto, usare la tragedia di un vec­chio perduto nei labirinti della sua soli­tudine per legittimare una battaglia civile o, peggio, una contesa politi­ca. Riconosco una luttuosa coerenza ai radicali, nelle lo­ro battaglie intorno al mori­re, dall’eutanasia all’abor­to, alla liberalizzazione del­la droga. Ma usare un suici­dio per rilanciare ancora una volta l’eutanasia, mi pa­re assai brutto, e un po’ scia­callesco. Rivela l’obbiettivo finale dell’eutanasia che non è quello di staccare la spina a vite ridotte alla pura sopravvivenza biologica, co­me si vuol far credere attra­verso due-tre casi estremi. Ma è l’idea che ciascuno possa decidere la propria morte semplicemente quan­do «non ce la fa più a vive­re », come ha detto ieri alla Camera la radicale Rita Ber­nardini. Dunque, non è più il caso estremo di una vita solo ve­getativa per decretare la dol­ce morte; basta sentire il bi­sogno di uccidersi perché non ce la facciamo più. Nes­suno ha diritto di giudicare le tempeste e le tragedie del­la vita altrui, e dunque il ri­spetto pietoso verso la scel­ta drastica del suicidio non deve mai venir meno. Chi ha deciso di compiere quel passo finale assume su di sé tutte le sue responsabilità davanti alla vita e alla mor­te, a chi gli sopravvive e se, crede, davanti a Dio. Quel che è barbarico, anche se si veste con le dolci vesti della civiltà e della libertà, è che la società, la sanità, la fami­glia debbano offrirgli la cor­da per impiccarsi. Corda in­dolore, beninteso, per non farlo soffrire. È umano, terribilmente umano che qualcuno deci­da di mettere fine ai suoi giorni ma è disumano, terri­bilmente disumano, imma­ginare una società, una civil­tà che non si fondi sulla vita e non si preoccupi di difen­derla ma diventi pubblica impresaria del libero mori­re. Chi si uccide e chi lo aiu­ta a uccidersi si assumano le loro responsabilità di fronte a Dio, se esiste, e davanti agli uomini. Senza salvacon­dotto sanitario; non voglia­mo che la mutua ci passi la morte; se preferiamo un ge­sto estremo, che estremo sia. Un gesto da anarco ribel­le, fuori dalla società. Se cre­diamo che quella sia la mas­sima scelta di libertà, lascia­mola alla libertà e non all’as­sistenza sanitaria pubblica. Si discuta sull’accanimento terapeutico su esistenze mi­nime, incoscienti e solo arti­ficiali. Ma una società non può legalizzare e agevolare il suicidio; smette di essere una società, diventa solo un dispositivo tecnico, un ac­count inumano, per sbriga­re al meglio le pratiche. A ta­le proposito devo ricordare le toccanti testimonianze raccolte da Bruno Vespa tra i familiari che hanno deciso di caricarsi la croce di una vita ridotta al lumicino e ora vivono la gioia di uno straor­dinario risveglio dei loro fa­miliari dati per morti. Ti ri­conciliano con la vita e con la famiglia. Meno ferale ma più brutta è stata la lugubre specula­zione di Veltroni. Ricordare in Parlamento che al suici­da Monicelli «non piaceva l’Italia d’oggi, la mortifica­zione della vita culturale» si­gnifica quasi adombrare, ma in quei modi obliqui, ti­picamente veltroniani, rife­riti sempre a misteriosi fatto­ri climatici, un nesso tra il suicidio del grande regista e la polemica antiberlusco­niana dei cineasti e della si­nistra de piazza. Non farla così sporca, Walter, non me­scolare la propaganda politi­ca al cordoglio. Te lo dico con le parole di Totò: «’Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie... appartenimmo a’ morte». Trovo tremenda l’eco di al­tri due suicidi in questi gior­ni, di un prete e di un diaco­no: il primo perché scoper­to dalle Iene nelle sue debo­lezze omosessuali, il secon­do perché ritenuto non ido­neo al sacerdozio. È terribi­le come il parlare di suicidi porti altri suicidi. E mi spa­venta dirlo mentre scrivo sul tema, seppure in direzio­ne inversa rispetto al diffu­so cupio dissolvi in gloria del suicidio. Qui torno a Monicelli. Mi ha scosso sapere che anche lui ha avuto, come altri casi, il tragico esempio di un pa­dre suicida. Quante volte i fi­gli rimproverano ai loro ge­nitori il volontario abbando­no della vita e dei loro cari quando insorge la dispera­zione. E quante volte, tragi­camente, a distanza di tanti anni, quei figli ripetono gli stessi errori dei padri o delle madri, per ragioni diverse ma in un intreccio doloroso d’amore e di protesta tardi­va verso di loro. Si uccidono a volte contro i loro padri e le loro madri che li abbando­narono, ma si uccidono co­me loro. Questo dimostra che non siamo isole nel de­serto del mondo, ma siamo legati pur sempre a qualcu­no, veniamo da qualcuno, ri­spondiamo a qualcuno, echeggiano in noi tracce profonde, e dentro la nostra solitudine abitano imprevi­ste comunanze. Amor fati , senza osare di insegnare nulla a nessuno. Addio mae­­stro, e che almeno in questo non abbia discepoli.