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 2010  novembre 14 Domenica calendario

TARANTO —

La tv, no: quella proprio non la vuole più nelle orecchie, in questa vita prigioniera. «Non me la sento di ascoltare, non voglio sapere cosa dicono», ha mormorato, rifiutando l’offerta di un piccolo apparecchio che le avrebbero concesso per tirala su, nonostante l’isolamento. Niente amatissimi talk show nella cella del carcere di via Magli «ad alta sorveglianza», tre metri per due con brandina, comodino mignon, sgabello e finestrella su un cielo lontano. Dev’esserle apparsa insopportabile l’idea di vedersi sballottata o peggio, messa alla gogna, nei programmi preferiti, senza controllo, come una qualsiasi comparsa: proprio lei che si sognava primadonna, e aveva abbordato all’inizio del giallo di Avetrana un’inviata di Mediaset — già adocchiata quando quella lavorava per il Grande Fratello — ingegnandosi a farle da «consulente» lì, tra le parabole di via Deledda («di’ a Barbara D’Urso di darti spazio... deve farti parlare di più!») col mix di astuzia e ingenuità che forse è la sua natura, l’anima profonda e carnale di Sabrina Misseri.

Qualche pensiero arriva fino a Ivano, l’ultima sua croce, il ricordo di sempre: «Mi piaceva, sì. Ma non è uno da amare, e non è uno che sa amare». E tuttavia le settimane d’isolamento nel braccio femminile, dove altre cinque detenute l’hanno accolta a distanza senza uno strepito di protesta, in un silenzio sospeso che sospende il giudizio, hanno cambiato questa damina nera che a metà ottobre, dalla caserma dei carabinieri dove la stavano arrestando chiedeva ancora alla madre Mimina al telefono «cosa dicono di me i tg?»: e non solo nel fisico, nei dieci chili di meno che ne hanno affilato il profilo. Questa adolescente tardiva coi codini da bambina e l’incedere da matrona, «suggestiva» al punto da incollare al video milioni di spettatori davanti alla sue famose «lacrimucce» a comando sempre alternate come su un set con risate e facezie a telecamere spente, ha chiesto carta e penna: e ha riempito una trentina di fogli della sua grafia elementare. Potrebbe essere un memoriale, o solo un modo per non impazzire del tutto in quella prigione dove trascorre da sola anche l’ora d’aria, camminando in circolo nel piccolo cortile: «Non pensavo di imparare tanto da questa storia», ripete. Il verdetto del Riesame le è arrivato ieri mattina, gliel’hanno notificato in cella. E lei è scoppiata in lacrime davanti agli avvocati Russo e Velletri: «Come sto? Sto male! Io sono innocente e mio padre è fuori di testa!».

All’apparizione davanti ai giudici si era preparata come alla prova della vita: «Mi hanno spiegato che potevo non andarci ma devo farlo, non ho vergogna e posso guardare tutti dritto negli occhi... non mi sarei esposta così se fossi colpevole», aveva detto, con tutta la fragilità e l’arroganza di quei ragazzini che pensano di poter correre nudi alla guerra, certi di non essere mai colpiti dalle pallottole. Poi ha cambiato idea. Martedì le avevano gridato «assassina» all’arrivo del furgone delle penitenziaria. Venerdì, sul muro di via Deledda, è apparsa una scritta, orrore e sgomento!!!!!, con cinque punti esclamativi. Ma Sabrina è ancora e soprattutto un punto interrogativo, un’altalena di scoramenti e attese messianiche: «Davvero devo passare il Natale qui? Non voglio. Mi faranno uscire, l’importante è fare chiarezza», diceva prima del verdetto che ieri l’ha inchiodata ancora in cella. A chi le sta vicino, racconta che ha «invocato l’aiuto di Dio», e ancora «mi fa male qui», dice, toccandosi il cuore e pensando a papà Miche’, il suo «paparino» che l’ha inguaiata dopo averla difesa da tutti. C’era un tempo in cui lei pensava di dover difendere lui, persino incapace di andare al patronato per capire quali e quanti contributi non gli avessero versato i padroni delle masserie. La moglie Mimina lo strapazzava, per questo, «buono a nulla, sei!», e Sabrina lì a proteggerlo, a prenderlo per mano, paziente: «Vieni che te lo spiego io, papà, siediti qui». Poi c’è stato un tempo in cui il paparino strattonato dalla vita sembrava cambiato, già trasformato in quella specie di satiro silvano che nell’ultimo sopralluogo coi carabinieri ha accarezzato a lungo come un caro congiunto il fico di suo padre, il vecchio e spietato Cosimo: quel fico dove — dice lui — avrebbe oltraggiato il cadavere di Sarah. Dalla memoria di Sabrina emergono due episodi inediti, avvenuti tra maggio e giugno nelle campagne dove Miche’ e Mimina andavano a lavorare assieme. Due esplosioni di violenza, con Miche’ che prende Mimina a sassate e l’aggredisce con un coltello, spaventandola così tanto che da allora lei non l’avrebbe più accompagnato nei campi.

Il difficile è capire se la memoria della figlia non faccia parte di una strategia, ora che il padre sembra meno orco, per dimostrare che una vittima designata come lui può comunque diventare feroce quanto una belva, in quella perdita di controllo che gli psicanalisti chiamano acting out e durante la quale l’agnello diventa lupo e può far di tutto, persino ammazzare un’innocente nipotina di 15 anni. Di certo la belva deve essere rimasta quieta sino ad allora, perché, su questo tutti concordano, Miche’ non ha mai sfiorato le figlie neanche con un dito, Sabrina non è stata una bimba abusata né maltrattata.

Sarah è un fantasma sempre presente. La cuginetta che cresceva troppo svelta e che cercava le coccole del mondo con una disperazione da orfana («si vende, questa qua per due coccole si vende!», è una delle frasi di Sabrina che allora la ferirono di più), deve tornare spesso davanti agli occhi della reclusa di via Magli, anche nella notte più lunga, quella dell’attesa del verdetto: «A volte mi devo fermare per ricordarmi che mia cugina non c’è più...». E chissà se in queste parole Sabrina è autentica o invece è il suo «sé narcisista» — che pure potrebbe avere attratto l’attenzione di chi le sta accanto — a metterci lo zampino. Chissà se quel narcisismo, che perfino a un profano pareva così evidente in ogni intervista della matrona con i codini, può essere stato il grilletto di questa tragedia. Il tempo cambia passo quando si è soli in una cella, le ombre ci trasformano e ci diventano compagne. Negli ultimi giorni, mentre si preparava al grande set del tribunale, la damina di Avetrana s’è accostata a una delle operatrici che qui l’assistono. «Abbracciami», le ha detto, cercando un contatto e un po’ di calore. E per un momento deve aver sentito sulla pelle la solitudine che a Sarah faceva così paura da spingerla a elemosinare amore.