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 2010  novembre 12 Venerdì calendario

LA CINA UMILIA GLI USA, OBAMA DICE SOLO GRAZIE. G20 RIDOTTO A UN PARTY


Nella guerra delle valute entra in gioco l’intelligence delle agenzie di rating. Se mercoledì la Dagong Global Credit emanazione del governo della Repubblica Popolare cinese era entrata a gamba tesa sul debito degli Stati Uniti (declassandolo da AAad A+, ben lontano da quello delle nazioni più virtuose), ieri l’americanissima Moody’s, diplomaticamente, ha rivisto al rialzo il rating della Cina, portandolo ad Aa3 dal precedente A1. Una decisione, ha spiegato l’agenzia, motivata «dalla stabilità dell’economia cinese» e dalle aspettative di «crescita forte ecostante e di stabilità macroeconomia».
Tutto vero. Però il tempismo di Moody’s, con l’annuncio che è arrivato a poche ore dall’inizio del teso G20 di Seul, non può essere casuale. Il tema più caldo al tavolo dei venti è la guerra dei cambi (e la prima giornata del vertice si è chiusa con un’ovvia fumata nera sugli accordi per circoscriverla). Dagong Global, alla vigilia, aveva contribuito non poco ad alzare il livello dello scontro con le sferzanti valutazioni a corredo del declassamento del debito Usa. «La crisi che gli Stati Uniti stanno affrontando», recitava la nota, «non può essere risolta con la svalutazione della moneta», un’opinione condivisa dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma soprattutto,continuava l’analisi, un dollaro debole potrebbe «minare la capacità degli Usa di attrarre capitali emettere in crisi lo status del Paese come centro dellafinanza globale». Quasi una minaccia, resa più che credibile dagli 870 miliardi di dollari di debito pubblico statunitense che rimpolpano le riserve valutarie del Dragone. E se la banca centrale cinese, per quanto improbabile, decidesse di liberarsi di una fetta cospicua del debito Usa, il biglietto verde potrebbe sprofondare. Così Moody’s, o chi per lei, ha dovuto giocarsi la carta della diplomazia.
Gli Stati Uniti el’Obama dimezzato dalle elezioni di midterm paiono all’angolo. Una sensazione confermata dalle prime frasi uscite dal vertice di Seul, che escludono categoricamente un accordo sul tetto al surplus commerciale. Contro la misura invocata dal presidente americano, che ipotizzava una quota pari al 4% del Pil, si è schierata in prima fila Frau Merkel: «Fissare dei limiti a surplus e deficit delle bilance commerciali non ha giustificazioni economiche e non è politicamente appropriato». A rincarare la dose ci hanno pensato il presidente uscente brasiliano, Lula da Silva, e Dilma Rousseff, che prenderà il suo posto nel 2011. Per Lula è finita l’epoca del biglietto verde, poiché «il dollaro, prodotto da un solo Paese, non può più rappresentare l’unica moneta di riferimento. È necessario», ha concluso picchiando duro, «aprire ad altre possibilità perché Paesi come Brasile e Cina non diventino dipendenti dalla decisione di svalutare di un altroStato». Proprio quello che, secondo l’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, gli Usa stanno facendo. Pronta è arrivata la risposta di Tim Geithner, il segretarioal Tesoro Usa, secondo cui «il mio Paese non indebolirebbe mai la sua moneta per ottenerevantaggi competitivi oper far crescere l’economia».Credergli, dopo la recente iniezione multimiliardaria della Fed, è un esercizio difficile.