Pietro Saccò, varie, 3 novembre 2010
GRATIS: VIVERE A COSTO ZERO O QUASI, PER VOCE ARANCIO
Vent’anni fa il mercato americano delle enciclopedie valeva 1,2 miliardi di dollari. Era dominato dalla Enciclopedia Britannica, seguita dalla World Book Encyclopedia. Costavano entrambe più o meno mille dollari. Nel 1993 arrivò Microsoft Encarta – che poi era la poco rinomata Funk & Wagnall riversata su cd – che costava solo 99 dollari. Nel 1996 le vendite della Britannica erano crollate a 325 milioni. Nel 1996 il mercato delle enciclopedie si era più che dimezzato scendendo sotto i 600 milioni di dollari, di cui 100 erano di Encarta. Poi, nel 2001, è arrivata Wikipedia, che fin dall’inizio non costava niente. Alla fine dell’anno scorso Microsoft ha chiuso Encarta.
È successo alle enciclopedie, sta succedendo alle guide turistiche, alle mappe stradali, ma anche alla musica e, in qualche modo, ai film, e pure ai giornali, ai software. Sono tanti i mercati che si stanno sgretolando perché non riescono a sostenere la concorrenza di nuovi rivali che gli fanno concorrenza proponendo un prezzo radicale: zero.
Chris Anderson, direttore di Wired America e autore di Gratis: «La verità è che c’è un mercato di nome “zero” e uno di nome “tutti gli altri prezzi”. In molti casi è questo che fa la differenza tra un grande mercato e un non mercato».
Un mercato in difficoltà perché sotto assedio da parte dei prezzi zero può offrire grandi affari al consumatore che sa cogliere le opportunità.
Diciamo prezzo zero (ma possiamo dire anche gratis) e non diciamo non-profit. Vendere qualcosa a prezzo zero infatti non comporta che non ci sia un profitto, ma significa soltanto che la strada tra il prodotto e il profitto diventa indiretta.
Sono quattro le più diffuse forme di gratis. La prima è il sovvenzionamento incrociato diretto: un prodotto che vi spinge a pagare qualcos’altro (è il tradizionale 2x1 al supermercato). La seconda è il sistema tre vie: una terza parte paga per partecipare a un mercato creato da uno scambio gratuito tra le prime due parti (come la pubblicità in tv). Poi c’è il Freemium: un prodotto o un servizio offerto gratuitamente ma abbinato a una versione a pagamento (lo fanno i software). Infine ci sono i mercati non monetari: qualsiasi cosa le persone scelgano di distribuire senza attendersi un pagamento (dalle donazioni a Wikipedia).
Quello che distingue lo zero da tutti gli altri prezzi è la sua capacità emozionale. Dan Ariely, professore al Mit di Boston: «Lo zero accende emozioni, è fonte di una eccitazione irrazionale». La forza del prezzo zero è che rende il consumatore irrazionale perché gli toglie tutta la fatica del pensare. Gli economisti definiscono questa fatica come i costi mentali di transazione: se un prodotto ha un prezzo diverso dallo zero spinge il consumatore a riflettere sulla scelta e già questo è un disincentivo a continuare. Se il prezzo invece è zero quella domanda non sorge mai e la decisione si fa più semplice.
Ariel ha fatto un esperimento tra i suoi studenti: ha messo in vendita due tipi di dolci, prestigiosi cioccolatini svizzeri Lindor e comunissimi Baci Hershey. I primi costavano 15 centesimi, i secondi un centesimo. A queste condizioni, considerata la qualità dei due prodotti, il 73% degli studenti ha comprato il Lindor, il 27% il Bacio. Quindi prezzi sono stati ridotti entrambi di un centesimo. Ora il Lindor costava 14, il Bacio 0. All’improvviso il Bacio è diventato un successo: lo voleva il 69% degli studenti. Solo il 31% sceglieva ancora il Lindor. Eppure la differenza tra i due era rimasta a 14 centesimi.
Tra i primi esploratori del grande mondo del gratis c’è King Gillette, il fondatore della Gillette. Inventore frustrato, anticapitalista amareggiato, venditore di tappi di sughero, nel 1903 creò la sua fabbrica di rasoi usa e getta. Il primo anno vendette 51 rasoi e 168 lame. Allora si mise a regalare i rasoi o a venderli a prezzi irrisori. Ne distribuì a migliaia. Dopodiché fece fortuna con le lamette. Aveva usato il gratis per creare la domanda per i suoi prodotti. È ormai un vecchio metodo ma è ancora molto in voga. Non è diverso, infatti, quello che fanno gli operatori telefonici con i cellulari (paga l’abbonamento e il cellulare è gratis).
«Non esistono pranzi gratis»: il vecchio detto americano si riferisce a una tradizione diffusa nei saloon del West, che offrivano cibo gratis a chi pagasse almeno una bevanda. I gestori dei saloon scommettevano che la maggior parte dei clienti avrebbe comprato più di una bevanda, e che la tentazione del cibo gratis avrebbe attratto clienti anche nelle ore più tranquille della giornata. Il New York Times nel 1872 scriveva che i pranzi gratis erano una moda molto diffusa a Crescent City, a New Orleans, dove un pasto gratis si poteva trovare ogni giorno in ogni saloon.
E sono come i vecchi saloon, oggi, bar e locali che portano avanti la tradizione molto italiana dell’aperitivo, offrendo stuzzichini ma anche vere e proprie pietanze a chi prende qualcosa da bere. Non sono pranzi gratis, ma poco ci manca.
È il mondo del web quello dove il prezzo zero trova la sua migliore applicazione. Tutto merito dei bit. Perché a differenza dell’economia degli atomi, dove le cose tendono a farsi più costose col passare del tempo, nell’economia dei bit, che è il mondo online, le cose costano sempre di meno dato che i costi di riproducibilità sono azzerati e quelli delle memorie fisiche (come lo spazio sugli hard disk) sono ormai del tutto marginali. Per sua natura l’economia degli atomi è inflazionistica, quella dei bit è deflazionistica.
Secondo le stime tra attività gratuite su internet (che vivono di pubblicità), videogames gratuiti (che guadagnano da certe funzionalità aggiuntive che propongono) e software open source il mercato del gratis su internet vale a livello globale 300 miliardi di dollari.
Sulla base del prezzo zero, o più banalmente del gratis, si sta formando un enorme giro d’affari. Prendiamo Google, che è un’industria basata sul prezzo zero: non chiede nulla ai clienti per usare i suoi servizi, dalla ricerca alla posta, passando per le mappe o i sotware di Google Docs. Ha una capitalizzazione di 195 miliardi di dollari che ne fa la 12esima maggiore azienda del mondo. O prendiamo Facebook, che agli iscritti non chiede denaro, e vale già attorno ai 2,5 miliardi di dollari.
Google guadagna talmente tanto con la pubblicità su una manciata di prodotti chiave (soprattutto sui risultati di ricerca e sulle inserzioni pubblicitarie) che riesce a rendere gratuito tutto il resto. L’idea base è costruirsi un pubblico enorme prima di avere un modello di business. Eric Schmidt, ceo di Google: «Tutto si riduce al coinvolgimento dell’utente in Google, e al fatto che, se a un certo punto del vostro convolgimento in Google riusciamo a farvi usare Google per qualcosa che possiamo monetizzare, allora i conti tornano».
Ogni volta che facciamo una ricerca su Google stiamo aiutando l’azienda a migliorare i suoi algoritmi per determinare il target delle pubblicità. L’atto stesso di usare il servizio crea valore, o perché migliora il servizio stesso o perché crea informazioni che possono rivelarsi utili altrove.
Non ci sorprende che un motore di ricerca o un servizio di social network siano gratis, perché offrono servizi che non siamo mai stati abituati a pagare. Le cose cambiano se parliamo di software. Oggi su internet possiamo trovare decine di migliaia di programmi gratuiti per fare le cose che prima facevamo a pagamento.
C’è il più celebre OpenOffice, simile a Microsoft Office ma gratuito, o Google Docs, che è un altro pacchetto di programmi da ufficio che lavorano solo on line. Su sourceforge.net, il principale portale dei progetti open source, in cui i codici sorgente dei programmi sono resi gratuiti e chiunque può collaborare a migliorare un progetto, si trovano software gratuiti per qualsiasi attività: dall’editing fotografico e musicale alla realizzazione di siti web.
La Ohlon, una società che monitora il settore dell’open source, ha contato 201.453 persone attive in questo settore su 146.970 progetti. Più o meno è il numero di dipendenti della General Motors. Quindi un bel po’ di gente che lavora gratis, anche se non a tempo pieno. I sociologi e gli psicologi dicono che lo fanno perché nel produrre qualcosa di utile, che la gente vuole usare, si sentono realizzati.
Dietro questi successi del gratis c’è l’idea di scala: cioè che «di più è diverso». Se solo l’1% degli alunni di una classe di seconda media si offre volontario per realizzare l’annuario scolastico è difficile che si riesca a fare qualcosa. Ma se solo l’1% degli utenti di Wikipedia decide di creare una voce, allora avremo il più grande crogiolo di informazioni che il mondo abbia mai visto. (In realtà gli utenti di Wikipedia attivi sono solo 1 su 10mila).
Generalmente i siti web seguono la regola del 5%: il 5% degli utenti sovvenziona tutti gli altri. Cioè per ogni utente che paga per avere la versione a pagamento di un sito ce ne sono 19 che usano, gratis, la versione base.
In realtà il web tende a rendere gratuito tutto quanto sia digitalizzabile, come la musica o i film. In molti casi per vie illegali. La pirateria musicale secondo le case discografiche ha fatto danni per 15 miliardi di dollari all’industria. Solo in Italia il giro d’affari bruciato dai download è di 80 milioni di dollari.
In Cina la pirateria costituisce circa il 95% del mercato di musica. Le case discografiche si sono adeguate: fanno soldi con tournée interminabili, con le trasmissioni delle canzoni via radio, con gli introiti degli spot dei cantanti. che sono contenti di essere piratati, perché più sono ascoltati più fan avranno. Si guadagna anche con le suonerie, mercato dal quale China Mobile nel 2007 ha fatto ricavi per più di un miliardo di dollari.
In Rainbows, l’album messo online dai Radiohead: i fan potevano scaricarlo decidendo quanto pagare, anche niente. Per ogni download il gruppo ha incassato in media sei dollari. Tra vinile, cd, download ecc. l’album ha venduto tre milioni di copie. I Radiohead hanno guadagnato più dai download dell’album prima dell’uscita del cd fisico di quanto avessero incassato in totale, in tutti i formati, con l’album precedente. La tournee di In Rainbows ha venduto 1,2 milioni di biglietti. È stata la più grande nella storia dei Radiohead.
Se sul mondo dei bit il gratis tende sempre a diventare la regola, quando torniamo nel mondo degli “atomi” il prezzo zero resta l’eccezione.
Su siti come Tuttogratis.it o Viveregratis.it è possibile trovare aziende che inviano campioni dei loro prodotti o gadget vari. Seguendo con attenzione le offerte si può fare incetta di shampoo gratuiti o di magliette promozionali. Di regali fantastici, però, non se ne trovano.
Se qualcuno volesse accedere al sito senza spendere nulla può prima consultare anchorfree.com, il portale su cui sono elencati milioni di hot spot wifi da cui connettersi gratuitamente a internet.
Chi invece volesse viaggiare senza spendere soldi per un albergo o un ostello può dare un’occhiata sui siti di scambi di ospitalità gratuita, come servas.it, hospitalityclub.org, couchsrufing.com. Si tratta di andare a dormire a casa di qualche sconosciuto/a.
Denis, lo studente di Psicologia (ma già laureato in Filosofia), intervistato dal Corriere ad agosto perché raccontasse la sua vita a bassissimo costo. I suoi gli pagano l’abbonamento al treno per andare all’università e i soldi per mangiare a pranzo. La sera cena con loro. Il resto se lo è inventato in qualche modo: in università solo libri usati, per prendere appunti «trenta matite al prezzo di un euro in offerta al supermercato e una risma di fogli A4». Per mangiare, mensa universitaria o spesa, ancora una volta, al supermercato: «Tre euro per due panini al prosciutto, al bar te lo sogni». E il caffè alla macchinetta, 20 centesimi invece che 80 al bar.
Ancora Denis: i vestiti? «Solo in offerta. La maglietta che indosso ora, per esempio, è costata 4 euro e 90». Il cellulare? «Massimo 10 euro al mese di ricarica, per il resto uso internet». Il computer? «È quello di sette anni fa, non sento la pressione tecnologica». Film e musica? «Si possono prendere in prestito in biblioteca». L’auto? «Di terza mano».
Ma il gratis a tutti i costi, nel mondo degli atomi, è una cosa più ideologica che “di mercato”. In Italia, l’avanguardia più organizzata di chi cerca di non spendere niente è Zero relativo, una community che ha raccolto quasi 15.000 aderenti: si punta al baratto, allo swapping, ma anche allo scambio di servizi e di beni ai quali non si vuole attribuire un valore preciso. I fondatori dicono che il denaro non deve essere una variabile.
All’estero sono più avanti anche nel gratis “reale”. In America (vedi www. freecarindex. com o www. libertydrive. com) esistono agenzie pubblicitarie che selezionano persone con la fedina automobilistica immacolata (zero incidenti negli ultimi 10 anni) per regalargli una macchina sponsorizzata dai loro clienti con il logo pubblicitario sulle portiere.
Alla SampleLab di Tokyo i clienti (quasi sempre giovani) ottengono fino a 5 prodotti gratis ogni volta che entrano. Ci sono candele, confezioni di spaghettini, creme per il viso e a volte anche roba da 50 dollari. Ogni giorno passa di lì un migliaio di clienti, che per entrare devono pagare un abbonamento annuale di 13 dollari e devono compilare periodicamente dei questionari su prodotti specifici. Il negozio è così popolare che le aziende pagano SampleLab per potere mettere i loro prodotti sugli scaffali (due settimane costano 2000 dollari) e sfruttare così quello che è diventato un enorme “focus group” permanente.