Alberto Alesina, Il Sole 24 Ore 28/10/2010, 28 ottobre 2010
LA PACE VALUTARIA NON SI FIRMA A UN TAVOLO
La crisi finanziaria del 1929 si trasformò nella Grande depressione a causa della guerra tariffaria che scoppiò fra i paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa in testa a tutti, una battaglia che praticamente annientò il commercio internazionale. Per fortuna, e grazie a più solide istituzioni internazionali, la crisi del 2008-09 non ha risvegliato il protezionismo, almeno finora.
Ma oggi stiamo assistendo a una versione diversa di guerra commerciale: quella sulle monete. È uno scontro più infido e confuso. Mentre chi introduce un nuovo dazio è facilmente identificabile, i tassi di cambio sono determinati da una complessa (e difficile da prevedere) combinazione di forze di mercato, aspettative, politiche monetarie e fiscali spesso difficili da identificare come colpevoli. Ad esempio, fino a che punto la politica monetaria espansiva della Federal Reserve è determinata dalla volontà esplicita o implicita di ridurre il valore del dollaro? Fino a che punto la Cina e altri paesi emergenti stanno remando contro un apprezzamento delle loro monete? Proprio perché è difficile stabilire il campo di battaglia e le regole di questa guerra monetaria, è pressoché impossibile stabilire e far rispettare accordi di cooperazione.
Gli squilibri commerciali mondiali non sono necessariamente una catastrofe in sé e per sé. La differenza fra esportazioni e importazioni è la controparte del divario fra risparmio (privato e pubblico) e investimenti fra paesi. Il fatto che risparmi e investimenti privati siano sbilanciati nel mondo non è certo una novità di questi anni. I mercati finanziari da tempo hanno assolto la funzione di riequilibrare questi flussi finanziari, e se forzassimo investimenti e risparmi a coincidere sempre e comunque in ogni paese l’allocazione ottimale delle risorse e la crescita ne risentirebbero. Ma forti squilibri sempre nella stessa direzione, per anni e anni, portano ad accumuli di crediti e debiti in diverse parti del mondo che possono diventare destabilizzanti. Ecco allora che un certo riequilibrio commerciale sarebbe utile. Ma ciò richiede cambiamenti nelle economie reali, le scorciatoie monetarie servono a poco. I risparmi privati cinesi (e di altri paesi asiatici) dovranno scendere, e i cinesi prima o poi inizieranno a consumare di più. D’altro canto il consumo pubblico corrente e atteso degli Usa, cioè il deficit di oggi e quello previsto per i prossimi anni, dovrebbero scendere. Politiche fiscali americane più prudenti avrebbero un effetto di stimolo su investimenti privati ed esportazioni.
Insomma, la domanda aggregata americana si deve spostare dal pubblico all’estero, e il rafforzamento del risparmio delle famiglie americane deve continuare. Ciò che manca alla ripresa americana non sono i consumi privati né (tanto meno) quelli pubblici. Sono gli investimenti e le esportazioni che mancano. Le imprese americane sono ricche di profitti, ma non investono a causa delle incertezze fiscali di Washington. Con più investimenti aumenterebbe anche la produttività.
Probabilmente i paesi in via di sviluppo, molti dei quali stanno crescendo a ritmi di quasi il 10% l’anno e stanno importando capitali, dovranno accettare una rivalutazione delle loro monete, Cina in testa; d’altro lato un dollaro più forte non sembra dietro l’angolo, e il valore dell’euro dipenderà dall’andamento delle economie più robuste (la Germania) e di quella dei paesi in difficoltà di bilancio.
Ma l’idea americana di fissare dei limiti ai deficit e surplus commerciali è impraticabile. Fino a che le variabili economiche reali non si aggiusteranno i saldi commerciali non si assesteranno in modo duraturo. E poi, come si può chiedere a un paese come la Germania, che grazie a politiche macroeconomiche prudenti, grazie ad un aumento della produttività e ad anni di moderazione salariale, cresce sostenuto dalle proprie esportazioni, di rendersi meno competitivo? Non è politicamente accettabile da Berlino. Perché le formiche tedesche dovrebbero pagare per le cicale americane?
Insomma la "pace delle monete" non è facilmente imponibile da accordi internazionali, soprattutto in un mondo multipolare. L’unica speranza è che i governi non cerchino scorciatoie monetarie per cercare di sanare (e comunque solo nel breve periodo) problemi che nascono dall’economia reale. Se ciò accadesse il clima politico internazionale, già pericolosamente peggiorato, ne risentirebbe ulteriormente.