Adriano Sofri, la Repubblica 14/10/2010, 14 ottobre 2010
QUANDO LA CURVA BATTEZZA IL NUOVO CAPO DEGLI SQUADRISTI
Guardavo, e pensavo che si dovrebbero mandare i corrispondenti di guerra a far la telecronaca di certi incontri di calcio, mentre gli spaesati cronisti sportivi spiegavano, santa innocenza, che le tre dita levate da Stankovic e compagni verso il pubblico significavano: Tre a zero. Guardavo quel bruto ributtante che nascondeva la faccia e ostentava i tatuaggi, e mi auguravo che tutti stessero guardandolo. Faceva prudere le mani e digrignare i denti, e di questo non c´era da rallegrarsi. Ma stava anche tenendo una lezione sulle guerre nella ex Jugoslavia più efficace di cento libri. Il bruto che si guadagnava i galloni a cavalcioni della balaustra, ha ottenuto per ora di essere estratto da un ripostiglio di autobus, spogliato della maglietta col teschio in campo nero, ed esposto alle telecamere con una faccia inebetita fra spavalderia e vigliaccheria.
Ma chi conoscesse appena un po´ la storia si diceva che l´occasione fa l´eroe del popolo serbo, che neanche vent´anni fa un farabutto grottesco come quello, iniziato dalla criminalità comune, era stato promosso dagli spalti belgradesi della Stella Rossa al comando di una milizia di migliaia di tifosi tramutati di colpo in sicari, e aveva guidato stupri e saccheggi e stragi e torture, a migliaia. Si chiamava Arkan, quello - fu onorato all´Olimpico da uno striscione, quando una faida lo fece fuori a Belgrado - si chiama Ivan questo: il tempo deciderà di lui, se farne il campione buffonesco di un manipolo di squadristi della curva, o un nuovo "eroe del popolo serbo". Era questo precedente a fare la differenza fra la serata di Marassi e le tante serate sciagurate del calcio. Fra la tifoseria serbista e quelle nostre. Una differenza abissale o piccola, a seconda che si impieghi o no un piccolo avverbio di tempo. Che si dica che la tifoseria belgradese si tramutò in una sanguinaria masnada genocida, e le nostre no. O si dica che le nostre non ancora.
Si rassicurerà chi veda nella violenza degli ultrà serbi un connotato nazionale, anzi etnico, come si preferisce dire (e si diceva della guerra mossa ai musulmani di Bosnia, come se si trattasse di un´altra "etnia", e non di uno stesso popolo con un´altra religione). La responsabilità collettiva è stata il fardello della Germania, così pesante da permettere ad altri paesi di occultare o attenuare il proprio. La Serbia vanta il retaggio della resistenza antinazista e, prima, di un irredentismo "mazziniano". E sconta una soggezione lugubremente fiera al proprio passato, a quel "Campo dei Merli" in cui Slobodan Milosevic inaugurò la sua avventura nazionalcomunista andando a disseppellire scheletri di seicento anni prima. Marko Vesovic scrisse, nella Sarajevo assediata, ricalcando Paul Celan, che "la morte è un capomastro serbo". Vittimismo e nazionalismo, che vanno bene insieme, strinsero in Serbia un patto micidiale. Il tradimento altrui e il sacrificio proprio aleggiano su ogni sconfitta, dalla battaglia di Kosovo Polje nel 1389 alla partita con l´Estonia e il povero portiere Stojkovic della settimana scorsa. L´anima serba è ancora ferita dai bombardamenti della Nato del 1999, pessimo modo di attuare un intervento necessario: ma nelle incomparabili violenze e distruzioni tra il 1991 e il 1995, non un metro di territorio serbo venne toccato. E le imprese infami dei serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic erano guidate e applaudite da Belgrado. Sono stati appena pubblicati stralci delle 4 mila pagine dei diari in cui Mladic - tuttora latitante - annotava con una incredibile tranquillità i crimini perpetrati agli ordini di Milosevic, e le complicità e le viltà degli Stati europei. Del resto si sono premiati con la metà della Bosnia Erzegovina i serbobosniaci del boss Dodik - compresa Srebrenica - i quali irridono l´idea della convivenza, e a Srebrenica vanno a commemorare i loro martiri...
All´Aja non si processa una colpa collettiva, ma persone e reati. Nella società serba, dopo Milosevic, una discussione c´è stata, e voci di un´"altra Serbia" hanno preteso un esame di coscienza collettivo. La colpa collettiva è difficile da imputare agli altri, ma non può essere elusa per se stessi. Al suo centro sta il consenso larghissimo accordato al regime criminale, e poi la negazione o la reticenza sui crimini di guerra e la corresponsabilità.
Le autorità di Belgrado hanno fatto dei passi. Hanno ancora piedi di piombo. Ieri hanno detto che si vergognano dei fatti di Marassi, e che si è trattato di un colpo deliberato al cuore della loro politica. E´ vero. Del resto i partiti dei criminali chiusi all´Aja - come quel Seselj che compare in aula per dire "Puttana" a una giudice, e per dire all´intera giuria che glielo può succhiare - hanno ancora tantissimi voti. Quanto alle tifoserie, mentre qui da noi ci si gingilla ancora con l´illusione che le violenze negli stadi servano a far sfogare l´aggressività della gente, là sanno che dalla guerra del calcio alla guerra civile c´è solo una questione di tempo, e di occasioni propizie.