Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 10/10/2010, 10 ottobre 2010
CERCANDO I SEMI DELLA RIPRESA - L’
ultimo ringraziamento, però, credo di doverlo all’ uomo senza il quale, molto probabilmente, l’ Italia non mi avrebbe tanto coinvolto e stregato. Il suo nome è Silvio Berlusconi». Sono le quattro righe finali di Forza, Italia, il saggio di Bill Emmott che Rizzoli manda in libreria dopodomani (pp. 254, Euro 19,50). In questa confessione, dove l’ ironia sfuma nel candore, stanno il respiro e il limite di un’ inchiesta sul campo che si conclude con sei proposte politiche su legge elettorale, lavoro, giustizia, concorrenza, finanza pubblica e conoscenza: un manifesto da Papa straniero, se nell’ opposizione fiorisse ancora il blairismo d’ antan. Dalle nostre parti Emmott è diventato famoso nel 2001 quando l’ «Economist», che lui dirigeva da otto anni, pubblicò una copertina per dichiarare Berlusconi inadatto a governare il Belpaese. Un giudizio negativo da cui il giornalista inglese non è mai tornato indietro, nonostante le disillusioni del centrosinistra qui e in Europa. Non a caso, nel 2006, proprio in Italia le sue dimissioni dalla guida del settimanale londinese, fisiologiche dopo tanti anni, ebbero l’ eco maggiore. «Il Giornale» lo bollò allora come «anti-italiano», irritandolo, benché non si aspettasse complimenti. La cosa non gli impedì di stupirsi per il riscontro fin troppo lusinghiero nel resto della stampa. E tuttavia lo stupore non aveva ragione: durante il fascismo illiberale e autarchico, per le classi colte l’ «Economist» rappresentava una finestra aperta sul mondo (Luigi Einaudi ne fu corrispondente dall’ Italia) e nel 2006 una parte dell’ opinione pubblica italiana riteneva il governo berlusconiano una forma di autoritarismo dolce, la cui critica sarebbe risultata tanto più credibile quanto più provenisse da una fonte così vicina al mito liberal-liberista. Forse anche per questo, con Berlusconi di nuovo al potere e al tempo stesso in bilico, il suo «Forza virgola Italia» potrà suscitare curiosità e interesse. Il proposito di Emmott è quello di scoprire lungo l’ intera penisola i semi della rinascita in un Paese che si è fermato e nemmeno più è capace di risparmiare come un tempo, quali che siano le bugie di Berlusconi e del suo ministro dell’ Economia, Giulio Tremonti. Li trova, questi semi, al Sud nelle associazioni spontanee siciliane e calabresi contro il crimine organizzato (Addiopizzo, Ammazzatecitutti), nelle aziende che hanno successo e non pagano il pizzo (strepitosi il vigneron siciliano Planeta e gli aeronauti casertani Pascale Langer), in alcuni sindaci come De Luca a Salerno o Emiliano a Bari; e se non si fosse schierato con l’ opposizione sindacale a Pomigliano, Nichi Vendola sarebbe il nuovo leader della sinistra capace di parlare al cuore delle persone. E poi è tutta una risalita lungo i miracoli dell’ Italia centrale (il cashmere filosofico dell’ umbro Cucinelli, la seminagione tecnologica del marchigiano Loccioni), su su fino al Veneto della H-Farm e al Piemonte che si reinventa oltre l’ industria dell’ auto con il Politecnico di Torino, la giustizia efficiente del giudice Barbuto e il museo del cinema nella Mole Antonelliana. È la scoperta dell’ universo della media impresa italiana, secondo uno schema che ricorda Soft economy di Ermete Realacci, ma che, questa volta, viene fatta da un intellettuale cosmopolita radicato nella City. Una scoperta che, se l’ innamoramento per il Belpaese durerà abbastanza da regalarci un secondo libro, potrà scendere più in profondità, fino alle radici. E capire come quel 27 per cento del Pil generato dalle attività manifatturiere, il doppio rispetto agli Usa, non sia un segno di arretratezza, ma la radice di una civiltà del lavoro dignitoso, dei produttori, se è vero che nei servizi si crea sì - qui come altrove - la maggior parte della ricchezza nazionale, ma spesso anche una gran quantità di posti di lavoro di pessima qualità, come proprio l’ «Economist» di poche settimane fa rilevava a proposito degli Stati Uniti. In questo genere di inchieste c’ è spesso un problema di fonti capaci di dare uno scheletro solido al taccuino degli appunti. Emmott si basa in positivo sulle ricerche della Banca d’ Italia, storicamente scettica sulla piccola impresa, e in negativo su quelle della Fondazione Edison, troppo tremontian-ottimista. Ma in Italia c’ è dell’ altro: a partire dalle riflessioni di Giacomo Becattini, economista marshalliano che aveva capito tutto alla fine degli anni Sessanta, fino alle più recenti ricerche di Mediobanca e dell’ Unioncamere, ma anche di Intesa Sanpaolo e Prometeia, delle università che non hanno accesso privilegiato ai media ma fanno vera ricerca, dalle quali si ricava come in Italia la piccola e media industria faccia egregiamente la sua parte, anche sul fronte della produttività, mentre a tradire siano il settore pubblico e la grande impresa, compresa quella privatizzata, comprese le grandi banche. Scavando su questi fronti, e sulle incomprensioni manifestate per decenni dalla cultura liberal, si potrà forse capire come mai quest’ Italia, che all’ ombra dei campanili fabbrica cose che interessano il mondo, come disse lo storico Carlo Cipolla, si rifugi nel localismo leghista o nelle formule berlusconiane, pur essendo ricca di quel capitale sociale che il protestante Emmott ammette di invidiare. Ma alla fine, fatte tutte le analisi, una virtù di Bill ci servirà comunque: la capacità di distinguere con la scure il bene dal male. Noi italiani abbiamo sulle spalle 2500 anni di storia nella quale siamo sempre stati al centro o contingui al centro del mondo: troppi per non essere troppo smaliziati e talvolta troppo sofisticati, come l’ Emanuele Severino del Declino del capitalismo. Eppure, il manifesto conclusivo di questo libro e qualsiasi altro proposito riformatore non avranno mai la spinta necessaria senza la forza morale e intellettuale di scegliere, come fa Emmott, tra Buona Italia e Mala Italia, opposizione ben più imbarazzante e radicale dell’ abisso che pur separa il Nord e il Sud.
Massimo Mucchetti