ADRIANO BONAFEDE, Repubblica Affari&Finanza 4/10/2010, 4 ottobre 2010
DA ASTALDI A IMPREGILO GRANDE FUGA DALL’ITALIA
Addio, Italia crudele. A fare fagotto e ad assumere le vesti degli emigranti con la valigia di cartone questa volta non sono dei semplici operai o camerieri ma le imprese di costruzione, a cominciare proprio dalle più grandi. Impregilo, la prima società in assoluto con 2,7 miliardi di fatturato, nel 2010 ha prodotto il 75 per cento del proprio giro d’affari fuori dai confini nazionali. Un record maturato a poco a poco negli ultimi anni.Il ridimensionamento della quota italiana è evidente anche per la seconda società di costruzioni, Astaldi, passata dal 48 per cento in Italia del 2008 al 43 nel 2009, con una perdita secca di 5 punti percentuali in un solo anno. E la proiezione a cinque anni del piano industriale indica il 40 per cento nel 2015, una soglia che il gruppo che fa capo a Paolo Astaldi giudica ottimale.
Ma ci sono anche imprese italiane ormai più conosciute all’estero che nel nostro paese. Così ad esempio Ghella, una delle principali società italiane con 5600 milioni di fatturato, e con una quota estera dell’8590 per cento.
La grande fuga all’estero delle imprese di costruzione italiana è fotografata anche da dati più generali e oggettivi. Dopodomani 6 ottobre l’Ance, l’associazione dei costruttori, presenterà, davanti al ministro degli Esteri, Frattini, l’ultimo rapporto sui lavori all’estero. Per Frattini, che secondo il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, si è impegnato molto su questo fronte, si tratta di un successo. Lo stesso, però non si può dire per il sistemapaese: perché i dati diranno che fra il 2004 e il 2009, il fatturato italiano di tutte le imprese di costruzione non soltanto non è cresciuto ma è persino diminuito di qualche punto percentuale. Al contrario, quello estero è schizzato e ha abbondantemente superato il 100 per cento di incremento in cinque anni. E i dati dell’ultimo anno, cioè il 2009, mostreranno ancora un trend divergente fra le due grandezze: il fatturato estero continua a crescere, quello italiano, che era rimasto statico fino all’anno scorso, continua a scendere. Al momento, il fatturato estero ha raggiunto grosso modo la metà del totale: e dire che era al 31,8 per cento soltanto cinque anni fa.
In Italia, dunque, le nostre imprese di costruzione incontrano così tante difficoltà che cercano una via di fuga all’estero. «Dal punto di vista delle infrastrutture dice Giandomenico Ghella, presidente dell’omonima società il paese è andato indietro invece che avanti. Così il settore recupera all’estero quel che sta perdendo qui. A volte si sente dire che bisogna mettere in cantiere i lavori perché i costruttori sono in crisi. Ma la verità è che bisognerebbe aprire i cantieri perché il paese ne ha bisogno».
Ma dove sono finite le grandi promesse del governo Berlusconi? Prima il famoso "contratto con gli italiani", nel 2001, parlava di apertura di almeno la metà dei cantieri delle opere individuate. Poi la Legge Obiettivo. Infine il Piano Casa. Niente, o poco, di tutto questo si è concretato se nel 2009 il fatturato italiano delle imprese è addirittura sceso, seppur di poco, rispetto a cinque anni prima.
Parole, parole, parole, verrebbe di dire. E infatti i costruttori, che già avevano lanciato un messaggio chiaro e forte al governo la scorsa primavera con gli "Stati generali" delle costruzioni – che vedeva per la prima volta accomunati imprenditori, lavoratori e cooperative di costruzione – stanno per lanciare una nuova offensiva, come spiega il presidente nell’intervista qui sotto.
L’iniziativa dell’Ance, che nasce dalla sempre più forte protesta che monta dalla base, si salda però con il nuovo atteggiamento della Confindustria, che attraverso il suo presidente Emma Marcegaglia sembra aver lanciato a Berlusconi il guanto di sfida perché passi finalmente "dalle parole ai fatti".
Ma è difficile credere che questo passaggio avverrà davvero o molto rapidamente, visto come sono andate le cose finora. Dunque le imprese, che devono chiudere i bilanci con soldi veri e non con sogni o promesse, sono di fatto costrette a proseguire la loro strada verso l’internazionalizzane.
Che sarebbe anche un bene, ma come ripetono i costruttori diventa un male se si perde il contatto con il proprio territorio: i grandi gruppi stranieri basano prima di tutto la propria forza nel proprio paese, e poi vanno alla conquista del mondo. Le nostre imprese stanno invece diventando delle girovaghe senza fissa dimora.Ormai il trend è così chiaro che anche quelli che sono stati finora più riottosi a lasciare l’Italia stanno cercando nuovi sbocchi. "Ci stiamo drammaticamente spostando sull’estero – dice Duccio Astaldi, presidente di Condotte, che ancora oggi, con un fatturato di 740 è all’80 per cento concentrato in Italia –. E non lo stiamo facendo per piacere ma per necessità. Ci sono pochi fondi per le opere pubbliche, e quando c’è poco lavoro si scatena una guerra al ribasso sui prezzi che rende impossibile, alle imprese sane come la nostra, partecipare. Il nostro obiettivo è portare il fatturato a 50 per cento in Italia e 50 all’estero. Siamo già presenti in Algeria e in Svizzera, dove stiamo costruendo la galleria ferroviaria tra Bellinzona e Lugano".
L’argomento dell’eccessivo affollamento delle gare è un tema sentito da tutti i grandi costruttori. Dice Ghella: «Il numero dei general contractor che c’è in Italia è superiore a quello che c’è in tutta Europa. Si dà a tutti un 6 politico, ma così la selezione è impossibile perché ci sono imprese disposte a tutto pur di aggiudicarsi quella commessa e dilazionare un po’ il fallimento che è alle porte. In Europa, invece, la "qualificazione" delle imprese è effettiva».
Impregilo pone lo stesso problema: «In Italia le gare al massimo ribasso, la qualificazione data a tutti, più le lentezze burocratiche dell’iter procedurale – dice l’amministratore delegato Alberto Rubegni – rendono difficile lavorare. A Panama, tanto per fare un esempio, dove abbiamo vinto la commessa per il terzo set di chiuse, eravamo in quattro grandi gruppi a gareggiare. A New York, per la galleria sotto il fiume Hudson, siamo qualificati soltanto in quattro. Questa preselezione che si fa all’estero va tutta a vantaggio del committente perché così si tutelano sia le imprese che le maestranze. Le grandi aziende come le nostra si focalizzano su progetti di rilevanti dimensioni che richiedono adeguate capacità tecniche, finanziarie e organizzative, quali le concessioni». Oggi Impregilo è presente in diversi mercati: dagli Usa (Las Vegas e New York) al Brasile (dove possiede Ecorodovias, una concessionaria autostradale quotata in Borsa), al Venezuela, all’Argentina, al Cile e naturalmente a Panama.
Non sono soltanto i grandi gruppi a guardare all’estero, ma anche società medie e piccole. «Oggi il nostro fatturato estero è ancora al 10 per cento – dice Mario Ferroni, vicepresidente di Grandi Lavori Fincosit, fatturato intorno ai 400 milioni – abbiamo già una corporate a Miami e presenza in Bolivia e Trinidad, ma stiamo tentando di andare anche in Nigeria e in Marocco».
Anche una media impresa come Matarrese in Puglia, 150 milioni di fatturato, ha deciso di puntare sull’internazionalizzazione. «Da tre anni – dice Salvatore Matarrese – abbiamo iniziato un percorso di presenza all’estero, data la contrazione degli investimenti in Italia. Siano concentrati in Albania e Marocco con strade e autostrade e con un ponte. Stavamo aspettando la partenza dei fondi europei Fas per il meridione, ma c’è stata una riprogrammazione. Aspettiamo che il ministro Fitto li faccia ripartire, ma dobbiamo guardare all’oggi: gli imprenditori vivono di certezze, non di speranze".