FEDERICO RAMPINI, Repubblica Affari&Finanza 4/10/2010, 4 ottobre 2010
L’AMERICA E LA RIPRESA CHE NON C’E
In tutte le recessioni americane avvenute dopo la seconda guerra mondiale, la ripresa postcrisi è stata rapida e vigorosa. In media, cinque trimestri dopo l’inizio della recessione il Pil americano aveva già recuperato il livello massimo precrisi.
Mai è accaduto che questo rimbalzo del Pil ai livelli precrisi impiegasse più di sette trimestri. Oggi invece sono passati 11 trimestri dall’inizio della recessione (dicembre 2007) eppure il Pil americano è ancora ben al di sotto del livello che aveva raggiunto alla fine del 2007.L’economia degli Stati Uniti sta crescendo a un ritmo che è solo un terzo della velocità di sviluppo nella media di tutte le recessioni del dopoguerra. La debolezza estrema di questa ripresa è ben visibile sul mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione ufficiale è fermo al 9,6% della forza lavoro; quello "reale" (inclusi i lavoratori scoraggiati che abbandonano la ricerca attiva di un posto e quindi scompaiono dalle statistiche) è vicino al 15%. La distruzione di occupazione è molto più accentuata in America che in Europa. Oggi gli americani che hanno un lavoro sono il 4,6% in meno rispetto al 2007, mentre nell’Eurozona sono "solo" l’1,7%. Questo scarto è relativamente normale data la maggiore rigidità delle normative europee che rendono più difficili i licenziamenti, e tuttavia dà la misura di quanto la crisi abbia pesato sulla sicurezza delle famiglie in America, sui redditi e sul potere d’acquisto.
Bisogna risalire alla Grande Depressione degli anni Trenta per trovare un andamento ancora peggiore, con una "ripresa mancata". In quel caso le cose andarono ancora peggio. Nel 1938, cioè dieci anni dopo il grande crac di Wall Street, l’occupazione totale negli Stati Uniti era inferiore del 20% ai livelli del 1929. Henry Morgenthau, il segretario al Tesoro di Franklin Delano Roosevelt, in una testimonianza alla Camera nell’aprile 1939 dovette ammettere: "Abbiamo provato a usare la spesa pubblica. Abbiamo speso più di quanto si fosse mai speso prima, e non ha funzionato. La disoccupazione è più alta che mai, e in più abbiamo creato un enorme debito pubblico". Quelle parole oggi possono riassumere un senso comune molto diffuso negli Stati Uniti, l’opinione corrente non solo tra gli elettori di destra ma anche tra molti moderati e indipendenti che hanno voltato le spalle a Barack Obama e che si apprestano a votare repubblicano alle legislative del 2 novembre. Anche loro sono convinti che si è provato a spendere fin troppo, e che gli 800 miliardi di investimenti pubblici varati nel gennaio 2009 non hanno curato la disoccupazione, mentre hanno contribuito a far lievitare il deficit pubblico fino al 10% del Pil.
La "ripresa che non c’è" ha provocato un fuggi fuggi generale tra i consiglieri economici di Obama: Christina Romer, Peter Orszag, Larry Summers hanno abbandonato i rispettivi incarichi o stanno per farlo. Il segretario al Tesoro Tim Geithner viene considerato in bilico. E’ un segnale dell’insoddisfazione per i risultati ottenuti. Un altro segnale ben più potente è quello che viene dai mercati valutari. Gli investitori internazionali hanno voltato le spalle al dollaro. Nel corso del terzo trimestre di quest’anno si è verificato un cambiamento di umore: se fino all’inizio dell’estate la paura numero uno era stata l’eventuale bancarotta di qualche Stato sovrano nell’Eurozona, in seguito la debolezza dell’economia americana è diventata il tema dominante.
Risultato: l’euro si è apprezzato dell’11,5% nel terzo trimestre, mentre il dollaro perdeva quota anche nei confronti dello yen (meno 5,6%). Può sembrare paradossale che il dollaro sia penalizzato nei confronti dello yen vista la persistente debolezza dell’economia giapponese. Va ricordato però che il Giappone continua ad avere un consistente saldo attivo nel commercio estero, mentre l’America ha un disavanzo. Inoltre la debolezza della ripresa americana è stata una sorpresa: i dati negativi sull’occupazione, i consumi, il mercato immobiliare, non erano stati "incorporati" dai mercati nelle loro valutazioni sul dollaro all’inizio del 2010.
Infine e soprattutto, la debolezza dell’economia Usa si ripercuote sul dollaro attraverso la cinghia di trasmissione della politica monetaria. A guidare le scelte dei mercati è l’orientamento della Federal Reserve. La banca centrale ha espresso chiaramente la sua disponibilità a ricominciare un’azione di "quantitative easing", di fatto un’espansione della base monetaria. Proprio perché è stata anch’essa spiazzata dalla debolezza della ripresa, la Fed ha annunciato che presto potrà riprendere i suoi acquisti di titoli pubblici a lunga scadenza. E’ uno strumento che fu già utilizzato dal dicembre 2008: serve ad abbassare i tassi a lungo termine, e genera nuova liquidità. E’ una politica "eterodossa", utilizzata perché lo strumento classico del tasso direttivo ormai è stato spinto fino all’estremo: il tasso d’interesse ufficiale fissato dalla banca centrale è già vicino allo zero, più giù di così non può andare. Ma i mercati hanno letto nell’annuncio della Fed anche una volontà di indebolire il dollaro. E’ questo che ha scatenato la "guerra delle valute". Già la Cina era accusata di mantenere una parità di cambio artificialmente bassa per il suo reniminbi; il Giappone ha reagito il 15 settembre annunciando vendite di yen per evitare una rivalutazione eccessiva. Quando è intervenuta la Fed anticipando le sue iniezioni di liquidità, è stato il segnale decisivo di una guerra "tutti contro tutti".
A corto di ricette, l’America tenta a sua volta la strada della svalutazione competitiva. E non solo quella. La settimana scorsa la Camera dei rappresentanti a Washington ha approvato a larghissima maggioranza (348 sì contro 79 no) una legge per punire con dazi doganali le merci importate dalla Cina, se Pechino non rivaluta in modo consistente il renminbi. Fra la guerra delle monete e le avvisaglie di una spirale protezionista, ecco un’altra analogia con gli anni Trenta. La Grande Depressione infatti fu aggravata dalle ritorsioni commerciali. Venne coniata l’espressione "beggarthyneighbor" (tradotta come "chiedi la carità al tuo vicino", prende il nome da un gioco di carte), per descrivere quelle politiche che tentarono di spostare la domanda verso i prodotti nazionali, a scapito delle importazioni. Uno degli strumenti usati è appunto quello delle svalutazioni competitive, per rendere i prodotti domestici più a buon mercato grazie al deprezzamento della moneta. Naturalmente se un comportamento simile si generalizza, nessuno riesce a trarne vantaggio. L’effetto della politica del dollaro debole, di fatto sposata dalla Fed sotto la guida di Ben Bernanke, viene amplificato perché una vasta area del pianeta fa parte di fatto di un’ "area dollaro". A cominciare dalla Cina, e dai suoi numerosi satelliti del sudest asiatico, molti paesi manovrano le loro monete in modo tale da seguire l’andamento del dollaro, anche quando non dichiarano ufficialmente un "peg" o aggancio fisso. Questo crea una situazione potenzialmente pericolosa: è come se Pechino ed altre capitali avessero di fatto subappaltato la loro politica monetaria alla Federal Reserve. Salvo che quest’ultima invece prende le sue decisioni guardando esclusivamente alle necessità dell’economia americana. La contraddizione può diventare stridente, se la ripresa postrecessione è debolissima negli Stati Uniti mentre la Cina ha una crescita del Pil vicina al 10% annuo. La liquidità aggiuntiva creata dalla Fed rischia infatti di creare nuove bolle speculative in Cina e in altri mercati emergenti surriscaldati.
Si starebbero cioè creando le premesse per un nuovo disastro. I maggiori studiosi delle crisi monetarie, da Charles Kindleberger a Barry Eichengreen, hanno dimostrato che nel corso dell’ultimo secolo le perturbazioni più gravi accaddero quando la superpotenza leader abdicò alle responsabilità della sua "valuta universale": accadde negli anni Trenta con il declino della sterlina, e negli anni Settanta quando l’Amministrazione Nixon abbandonò i cambi fissi di Bretton Woods. Come ha osservato il premio Nobel Robert Mundell, il "padre ideale" dell’euro, "l’attuale instabilità del cambio tra l’euro e il dollaro non ha precedenti nella storia ed è una cosa terribile per l’economia mondiale".