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 2010  ottobre 03 Domenica calendario

IRLANDA, DALL’AGRICOLTURA ALLA FINANZA E RITORNO

Le radio trasmettono senza sosta i racconti deprimenti, gli sfoghi dei cittadini. «Ho perso il lavoro»; «La banca non mi presta neanche mille euro». Sono i giorni più neri dell’ Irlanda moderna. La lista dei guai, degli attacchi, delle ingiunzioni e recriminazioni è interminabile. Il primo ministro (il Taoiseach) Brian Cowen è sotto assedio. Da Bruxelles il commissario agli Affari economici, il finlandese Olli Rehn, gli chiede di cancellare il privilegio fiscale che è stata la leva con cui il Paese «ha sollevato il mondo»: mini-aliquota del 12,5% sui profitti di ogni tipo di impresa. Dal ministero delle Finanze, retto da Brian Lenihan, arrivano stime allarmanti. Quest’ anno le entrate fiscali toccheranno quota 32 miliardi di euro. Ma se il governo spenderà 50 miliardi per salvare le tre banche cardine (Anglo, Aib, Bank of Ireland) dove si troveranno le risorse per far funzionare le scuole, gli ospedali, la macchina dello Stato? Secondo i sondaggi, l’ 83% dei 4,3 milioni di irlandesi non ha fiducia nel piano impostato dal governo e il 70% pensa che il «peggio debba ancora venire». Per il momento la protesta è gestita dai sindacati senza grandi tensioni, ma Cowen e il suo partito, Fianna Fail (centro liberaldemocratico), sono sovrastati dalle accuse dell’ opposizione (partito laburista e Fianna Gail, cristiano-democratici) Non c’ è da stupirsi, allora, se le ultime fotografie del premier somigliano sempre di più alle caricature pubblicate dai giornali. Il mite e florido Cowen (50 anni), uno degli artefici del «miracolo irlandese» con l’ ex ministro delle Finanze Charlie McCreevie e l’ ex premier Bertie Ahern, ha lasciato il posto a un imbarazzato, scorbutico leader ormai «sotto osservazione» (on notice). Ma in Europa con il governo è «sotto osservazione» l’ essenza stessa del «modello irlandese». Il tandem Cowen-Lenihan si affanna a spiegare che l’ ex tigre celtica non è la Grecia. Tanto che il governo si è assunto l’ impegno di riportare il deficit pubblico dalla grottesca soglia del 32%, prevista per quest’ anno, al 3% entro il 2014. E per non correre rischi il ministro delle Finanze ha cancellato le prossime aste dei titoli di Stato, sostenendo che il debito è coperto almeno fino a giugno 2011. Poteva sembrare una battuta fuori luogo, ma i mercati internazionali sembrano pronti a concedere un’ altra possibilità agli irlandesi, probabilmente guardando più che a Dublino al cordone di sicurezza europeo (il fondo di salvataggio istituito dalla Ue dopo il quasi-crac greco). Segnali incoraggianti, ma di breve momento. Le banche nazionalizzate, per esempio, ora dovranno dimostrare di non essere «istituti zombie», per riprendere l’ analisi generale del governatore della Banca d’ Italia, Mario Draghi. In realtà, tutto il Paese (non solo il ceto politico) è chiamato a un cambiamento profondo, radicale. Perché lo smottamento dei conti pubblici è legato al corto circuito delle banche che a sua volta rimanda alla bolla immobiliare. E dentro tutto questo c’ è la storia recente di una sbornia sociale collettiva. I soldi facili dell’ ultimo decennio (quello del sogno finanziario: Dublino è la nuova Londra) sono stati investiti in appartamenti e uffici. Anche famiglie con redditi modesti si sono buttate nell’ onda. A metà degli anni 2000 si costruivano 90-95 mila case all’ anno: una cifra folle rispetto a un livello fisiologico stimato sulle 30-40 mila unità. Il boom delle costruzioni ha attirato almeno 250 mila immigrati dall’ Est (polacchi, lituani, romeni). E tutti insieme, irlandesi e e nuovi arrivati, hanno continuato a costruire, costruire, costruire, finanziati praticamente a costo zero dalle banche, incoraggiati dal governo del liberismo trionfante (e anche un po’ tronfio). Fino a quando il lavoro di ruspe e gru ha toccato la soglia assurda del 25% della ricchezza prodotta nel Paese (il doppio rispetto alla media europea). Non poteva durare, oggi lo dicono tutti (solo oggi però). I prezzi del mercato immobiliare sono crollati del 45% (stime degli operatori), le case vendute (e invendibili) sono almeno 100 mila. È evidente che cadere da quelle altezze fa molto male. Il debito collettivo di famiglie e imprese è schizzato a quota 888 miliardi (quasi il triplo rispetto alla media europea); il tasso di disoccupazione è salito dal 4,6% al 14%; tutti i salari sono stati già tagliati del 10%. Oggi lo stipendio medio è di 10-12 euro all’ ora (lordo) e la paga minima è di 8 euro (sempre lordo). Allora, come si rimette in piedi un Paese ridotto così? «C’ è un’ Irlanda che non è stata toccata dalla crisi, la base operativa di circa 800 grandi multinazionali, da Intel a Microsoft a Google», risponde Brendan Butler, direttore degli Affari internazionali dell’ Associazione degli industriali (Ibec, Irish Business and Employers Confederation). Segue l’ elenco dei «cinque settori» per il futuro dell’ Irlanda: componenti medicali; telecomunicazioni; agroalimentare; farmaceutica e servizi finanziari (riveduti e corretti). Anche Paschal McGuire, direttore della sezione imprenditoria per l’ Agenzia del governo «Enterprise Ireland», sostiene che c’ è una piccola luce da seguire: la crescita di circa 3 mila piccole e medie aziende orientate all’ esportazione e che possono creare 60 mila posti di lavoro entro il 2015. Piattaforma per le grandi aziende internazionali (Italia presente soprattutto con le banche, Intesa, Unicredit e Bpm), riscoperta di antiche e moderne vocazioni (agricoltura, biotecnologie), esportazioni (già a quota 13 miliardi di euro). Questa può essere la nuova Irlanda, con più regole finanziarie e vecchie tutele («no» all’ abolizione dell’ aliquota del 12,5% sulle imprese). Ma anche con ricorrenti tentazioni di fuga. Secondo una ricerca pubblicata dall’ Unione degli Studenti, circa 150 mila laureati si preparano a emigrare nei prossimi cinque anni. Del resto 100 mila di loro sono già disoccupati.
Giuseppe Sarcina