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 2010  ottobre 03 Domenica calendario

«MAMMA IRÈNE VIVE IN QUELLA VALIGIA»

Questa è la storia di una valigia, una di quelle che passa dai nonni ai nipoti, di ge­n­erazione in genera­zione. Solo che dentro questa valigia c’è un romanzo,e intor­no a questo romanzo una sto­ria, la storia di una figlia che rie­sce a salvare il testamento di sua madre, la testimonianza di una donna, una scrittrice, che non è sopravvissuta alla follia del suo tempo.
Denise Epstein, 81 anni, ha gli occhi stanchi da sopravvis­suta. Guarda indietro, e rivede una donna di 40 anni con i pri­mi capelli grigi e gli occhi cer­chiati. Parla in russo a bassa vo­ce con il marito, per non farsi capire. «È l’ultimo ricordo che ho di mia madre. Quella è sta­ta l’ultima settimana che sia­mo state insieme. Lei scriveva senza sosta. Aveva capito che ciò a cui stava lavorando sareb­be uscito postumo. Aveva fret­ta. Il tempo che le restava era pochissimo. E lei se lo sentiva addosso».
Una Francia travestita da gendarme si è portata via Irè­ne Némirovsky a soli 39 anni. Deportata ad Auschwitz. «Il nostro sogno è finito così. Po­chi mesi dopo, le spie hanno fatto arrestare anche mio pa­dre. Io e mia sorella siamo ri­maste orfane. Abbandonate al­l’improvviso ». Due bambine sole, rifiutate dalla nonna, in cerca di rifugio, e con una pro­messa da mantenere. Denise lo ha raccontato senza rispar­miare nulla in Sopravvivere e vivere , da poco uscito per Adel­phi. «Prima di partire mio pa­dre mi prese da parte e mi dis­se: “ Denise, ti lascio questa va­ligia. Dentro c’è un tesoro. Mi raccomando, non perderla. Tienila sempre stretta a te, qualsiasi cosa succeda, tu non lasciarla mai”». Denise ha ob­bedito, l’ha custodita ogni gior­no, anche quando scappava­no dai tedeschi di notte, saltan­do giù dai treni prima di entra­re in stazione per fuggire alla Gestapo. Sono passati più di 70 anni. Denise ha trovato il co­raggio di guardare nella vali­gia, e di leggere quel mano­scritto lasciato dalla mamma. Era Suite francese , (Adelphi) il capolavoro della Némirovsky, l’autobiografia di una donna che si sentiva braccata, nasco­sta in campagna, stanca e di­sperata. Un testamento scritto fitto fitto su un blocchetto.
Quando avete aperto la vali­gia per la prima volta?
«Subito,perché dentro c’era­no delle fotografie di mia mam­ma, di me e mia sorella con lei, con mio papà. Poi l’abbiamo chiusa aspettando che la legit­tima proprietaria tornasse. C’è voluto molto tempo prima di ammettere che non sareb­be più tornata. È stato il dolore più grande».
Quando ha capito che non l’avrebbe più vista?
«C’è voluto molto, moltissi­mo tempo per accettare la morte. Per anni, andando in gi­ro per la Francia, ho pensato di incontrarla nel volto di un’estranea. Pensavo che avesse perso la memoria, che non si ricordasse più nulla. E prima ancora, subito dopo la guerra,per mesi io e mia sorel­la siamo andat­e all’Hotel Lute­tia con i nostri cartelli in mano.
Aspettavamo in silenzio, con gli occhi a scrutare ogni volto scavato. Ci eravamo promes­se che­non saremmo più torna­te alla stazione Gare de l’Est. Lì sono arrivati i primi deportati. Ma quando ho visto quelle fac­ce ho pensato che anche se i miei genitori mi fossero passa­ti davanti non li avrei ricono­sciuti. Gli occhi di quella gente non avevano più niente di umano. Così non siamo più tornate alla stazione. Era trop­po da sopportare senza una mano a cui aggrapparsi. Erava­mo due ragazzine sole. E ave­vamo perso tutto».
E il quaderno? Quando lo ha scoperto?
«Non abbiamo letto il qua­derno, non subito. Temeva­mo che fosse un diario intimo, privato. Abbiamo scoperto do­po che era un romanzo. Poi l’ho letto e mi sono messa a ri­copiare tutto, parola per paro­la, senza tralasciare nemme­no le virgole. Ci ho impiegato due anni, una scrittura minu­ta, per non sprecare spazio. Una fatica enorme, e dovevo stare attenta che le mie lacri­me non bagnassero l’inchio­stro ».
Nonha mai pensatodi lascia­re la valigia?
«No, assolutamente no. Per me è un oggetto sacro perché abbiamo aspettato per molto tempo che i legittimi proprieta­ri tornassero. Nemmeno in pe­ricolo di vita l’avrei abbando­nata ».
Che viaggio ha fatto quella valigia?
«Ha una storia lunghissima. Prima, quando apparteneva a mio nonno, ha fatto il giro del mondo, poi è andata nelle ma­ni di mio padre e poi a noi. E viaggia ancora. Pochi mesi fa ha attra­versato l’Atlantico per essere esposta in una mostra su mia madre a New York. Per fortu­na è molto resisten­te!
».
Che cosa le manca più di sua mamma?
«Mi manca ancora. Non l’ho avuta accan­to durante l’adole­scenza, non c’era nel­le tappe fondamentali della mia vita. Mi man­cherà sempre. Ogni giorno. Sopravvivere e vivere era un dovere che sentivo di avere. E oggi sono ancora qui e sono in piedi».
Quando ha capito che non l’avrebbe più rivista?
«Quando l’hanno ar­restata io non ho capi­to nulla. Ero una bam­bina, avevo solo tanta paura. Ma non avevo certo realizzato che quella sarebbe stata l’ultima volta insieme. Ma neppure mio pa­dre si rese conto fino in fondo. Quando poi lui stesso a sua volta sa­rebbe stato arrestato, tre mesi più tardi, era convinto che l’avreb­be ritrovata. E invece quando papà arrivò ad Auschwitz lei era già morta da due mesi».
Vostra nonna davvero vi ha chiuso la porta in faccia?
«Mia mamma e lei si detesta­vano. Non si parlavano da an­ni. Mia mamma adorava il pa­dre ed è per questo che in ogni suo libro c’è un ritratto feroce della madre. Dopo la guerra mi sono ammalata, non avevo soldi per curarmi e la tutrice mi ha portato dalla nonna a Nizza. Lei nel frattempo aveva ritrovato l’appartamento e la sua fortuna. Abbiamo bussato alla sua porta non so quante volte. Lei non ha aperto. L’ho rivista da morta, aveva 100 an­ni. Ci siamo sbarazzate di tutti i suoi ricordi».
Che cos’è la memoria?
«È il bastone cui mi sono ap­poggiata. Per anni la vita mi è sembrata un regalo avvelena­to. Conservare il ricordo di chi se ne è andato è stato fonda­mentale, non farlo sarebbe co­me ucciderli un’altra volta, sa­rebbe come dare la vittoria ai nemici. Lavoro molto alla rico­struzione della memoria, e non solo per mia mamma che ha lasciato un’eredità lettera­ria, ma anche per tutti quelli che non hanno lasciato trac­ce ».
Qual è stato il primo libro che ha letto di sua mamma?
« Il ballo . Quando lo ha scrit­to era davvero felice».