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 2010  ottobre 03 Domenica calendario

OBAMA SCEGLIE DI NON AGIRE E BAGDAD ADESSO RISCHIA DI FINIRE ALL’OMBRA DELL’IRAN

Un record e un disastro. Tutto in 24 ore.Ventiquattr’ore destinate a se­gnare uno dei picchi negativi della po­litica estera di Barack Obama. Una giornata in cui l’Iraq prima conquista il record di nazione più a lungo senza governo dopo un’elezione e poi assi­ste a un ribaltone che minaccia di tra­sformarlo da protetto di Washington in alleato di Teheran. Con tanti saluti a Obama e a quanti a Washington lo hanno sistematicamente ignorato buttando alle ortiche i successi del ge­nera­le David Petraeus e dall’ammini­strazione Bush. Ma cominciamo da venerdì. Dalle elezioni del 7 marzo sono passati 208 giorni, uno in più rispetto ai 207 im­piegati nel 1977 dai politici olandesi per mettere in piedi un esecutivo. Il paragone non consola. Un conto è ter­giversare nella tranquilla Olanda, un’altra accapigliarsi sull’orlo del­l’abisso iracheno. Per capirlo basta­no poche ore. La sera di venerdì il pre­mier uscente Nuri Kamal Maliki an­nuncia un accordo per la formazione di un nuovo governo con Moqtada Sa­dr, l’agitatore sciita in esilio a Tehe­ran. Quell’annuncio, seguito dalla notizia dell’imminente ritorno in pa­tria del 37enne capopopolo, è un au­tentico calcio in faccia agli Usa. Due settimane prima Obama ha spedito a Bagdad il numero due Joe Biden per convincere il premier Maliki a trovar una soluzione di governo concorda­ta. Il premier uscente iracheno inve­ce di dar retta al vicepresidente è sce­so a patti con Moqtada Sadr, il più fe­dele fantoccio degli iraniani. Stringe­re un accordo di governo con lui equi­vale a consegnarsi a Teheran, rinun­c­iare alla protezione americana e riat­tizzare la rabbia sunnita riportando il Paese sull’orlo della guerra civile. O della divisione. In poche parole il di­sastro. Un disastro favorito dall’im­perturbabile passività dell’ammini­strazione Obama davanti alle mosse di un Iran che da marzo cerca solo d’ impedire la nascita di un esecutivo.
L’obiettivo è evidente, Teheran at­tende unicamente il ritiro di fine ago­sto delle truppe da combattimento americano per poi cercar di conqui­stare il controllo del Paese. Eppure al­la Casa Bianca nessuno muove un di­to. Obama, preoccupato di contene­re un’emorragia di voti pacifisti ed evitare una debacle democratica alle elezioni di metà mandato del prossi­mo novembre, preferisce non agire. In attesa del 31 agosto il presidente Usa potrebbe non solo discutere una proroga del ritiro, ma anche far pres­sione sul premier Maliki e su Iyad Al­lawi, l’altro vincitore delle elezioni, per convincerli a metter da parte le rivalità personali. I due potrebbero così utilizzare gli 89 e i 91 seggi con­trollati nel Parlamento per formare assieme a un terzo partito un solido governo di unità nazionale. L’allean­za garantirebbe, tra l’altro l’entrata nel governo dei rappresentanti sunni­ti eletti nella lista di Allawi, contri­b­uendo a tener lontano lo spettro del­la guerra civile.
Obama preferisce, in­vece, attendere il 31 agosto, spaccia­re il ritiro come una promessa mante­nuta e attribuirsi un successo perso­nale.
L’accordo tra Maliki e Sadr dimo­stra ora che ha semplicemente ab­bandonato l’Iraq al proprio destino. O meglio al destino confezionato da Teheran. Moqtada Sadr, l’agitatore protagonista nel 2004 della prima ri­volta sciita contro gli americani, vive da almeno 3 anni nelle sacre scuole di Qom dove studia per conseguire il titolo di ayatollah e conquistarsi la le­gittimità di leader non solo politico, ma anche religioso. A marzo mentre lui studiava i suoi protettori gli confe­zionavano quell’exploit elettorale che gli garantisce oggi il controllo di una quarantina di seggi parlamenta­ri. Che uniti ai 50 controllati dai cur­di, decisi ad ottenere in cambio il con­trollo della città petrolifera di Kirkuk, consentiranno al premier Maliki di ot­tenere una solida maggioranza. Tra­sformandolo in un premier alla mer­cé di Teheran.