Fernando Mazzucca, Il Sole 24 Ore 3/10/2010, 3 ottobre 2010
IL VERO VOLTO DELL’INDIVIDUO
Nel 1890 Oscar Wilde pubblicava a puntate su una rivista Il ritratto di Dorian Gray, un testo destinato presto ad entrare nella leggenda. In un passaggio chiave del romanzo, subito oggetto di aspre polemiche che hanno continuato ad appassionare e inquietare generazioni di lettori – è il quadro ad invecchiare al posto del protagonista – , uno dei personaggi, un pittore, sostiene che «ogni ritratto dipinto con passione è il ritratto dell’artista, non del modello. Il modello non è che il pretesto, l’occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore, ma piuttosto il pittore che sulla tela dipinta rivela se stesso. La ragione per cui non voglio esporre questo ritratto è che temo di aver palesato in esso il segreto della mia anima». Alla fine del secolo non ci poteva essere conferma più esplicita del valore e del misterioso potere che aveva assunto, nel corso dell’Ottocento, quello che nella lunga tradizionale gerarchica dei generi veniva considerato minore. Se prima i suoi requisiti principali erano stati la rassomiglianza e le qualità adulatorie, quasi sempre pretese dal cliente, in un periodo in cui l’individuo e la società avevano subito una profonda e veloce trasformazione era diventato invece lo strumento privilegiato per indagare il carattere e l’animo umano, sondando, come nel caso di Wilde, profondità oscure e inconfessabili.
Ritratti magnifici sono stati realizzati in ogni epoca. Ma è nella seconda metà del Settecento che si assiste, grazie a grandi pittori storici come Mengs, Batoni, Reynolds, David, quanto a specialisti quasi esclusivi come Gainsborough, Elizabeth Vigée-Lebrun, Angelica Kauffmann e Giovanni Battista Lampi, al grande riscatto del genere. Siamo negli anni felici dell’Illuminismo e il ritratto conquistava una straordinaria importanza proprio per la sua capacità di farci conoscere l’uomo, mettendo in risalto l’individuo al di là del censo e del ruolo sociale.
In questa nuova ottica il ritratto intrecciava e continuerà a intersecare il suo percorso con quello della poesia e soprattutto di un nuovo genere letterario come il romanzo destinato a confermarsi nell’Ottocento come interprete privilegiato della modernità. Se prima venivano ritenuti degni di essere considerati artistici solo i ritratti eseguiti dai pittori di storia, ora anche gli specialisti, quelli che furono quasi esclusivamente ritrattisti, finiranno con lo sconfiggere gli antichi pregiudizi e conquistare un ruolo di cui, nella seconda metà del secolo, la sfolgorante carriera internazionale di Boldini è la conferma più significativa. Egli aveva saputo rappresentare e interpretare, tra l’Italia e Parigi, con un linguaggio pittorico assolutamente originale un nuovo ideale di femminilità, seducente e inquieta, quella della cosiddetta Belle Époque.
Ma tornando all’inizio del secolo, era stato nel clima emancipato di una Milano europea, tra gli anni del dominio napoleonico e della Restaurazione, che due pittori, Appiani e Hayez protagonisti del grande genere storico, avevano consacrato proprio nel ritratto, per cui dimostrarono un genio naturale, un’umanità nuova. C’è una straordinaria corrispondenza tra le indimenticabili donne amate e celebrate nei suoi versi da Foscolo, dagli «occhi ridenti», del sorriso di Venere che nasce «vergine» dal «greco mar», e quelle dipinte da Appiani che ispirandosi all’amato Correggio ingrandiva gli occhi conferendo allo sguardo una luce e uno charme speciali. Grazie a loro il ritratto, sostituendo al valore finora prevalente di status symbol una coinvolgente dimensione esistenziale, entrava nella modernità in cui per tutto il resto dell’Ottocento l’avrebbe declinato da Appiani e Gigola, a Hayez, Molteni, Trécourt, Piccio, Faruffini, Bertini, Mosé Bianchi, Cremona, Ranzoni, Carcano, Pellizza da Volpedo, Tallone, la scuola lombarda. Caduto Napoleone e scomparso Appiani, sarà il genio romantico di Hayez a trionfare a Milano "nelle sale di Brera", sede di affollate e applaudite esposizioni. Egli diventava, grazie a ritratti indimenticabili, l’interprete di una nuova idea della donna meno carnale e più spirituale. Era diventata di moda grazie al romanzo in versi l’Ildegonda di Tommaso Grossi, quando le «ragazze» singhiozzavano e si tormentavano se avevano «le guancie rubiconde, perché Ildegonda doveva averle pallidissime». Mentre trovava una straordinaria trasfigurazione lirica nel «bianco aspetto» di morte e nel «tremolo sguardo» che cerca il cielo di Ermengarda o nella «bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo», quale ci appare nella sempre commovente descrizione della madre di Cecilia nei Promessi Sposi dello stesso Manzoni.
Fu Stendhal, che nel Salon de 1824 e in altri suoi scritti aveva celebrato Hayez come il maggior pittore storico vivente, a consacrarlo anche come impareggiabile ritrattista, immaginando, nella Certosa di Parma, che dal suo "genio" fosse scaturito il "magnifico ritratto" del protagonista Fabrizio del Dongo. Mentre Manzoni, che pure avendoci lasciato nel suo romanzo tanti ritratti indimenticabili aveva una naturale allergia a farsi ritrarre, fece eccezione per Hayez, recandosi in persona nel suo studio e sottoponendosi alla fatica di tutte le sedute necessarie: «Ne impiegò tre ad abbozzarlo; circa dieci a dipingerlo accuratamente, nulla facendo con il manichino, ma copiando dal vero anche tutti gli accessori; e altre due per ritoccarlo; in tutto 15 sedute». Ma ne era valsa la pena. Il ritratto conservato a Brera – forse il più famoso del secolo insieme a quello che tanti anni dopo Boldini dedicherà a Verdi – non è tanto la celebrazione dello scrittore quanto, e da questo deriva il suo fascino, la rivelazione, in tutta la complessità di quell’animo inquieto, dell’uomo Manzoni.
Se i letterati amavano i ritratti, la critica ufficiale continuava a guardarli con una certa diffidenza. Per il conte mantovano Opprandino Arrivabene, caro amico e corrispondente di Carlo Cattaneo e di Verdi, il «ritrattista» rimaneva addirittura «tra i pittori quello che il sonnetista per nozze, per morte, per monacazione e per prima messa, è tra i poeti». Subito dopo, un recensore pur colto e sensibile come Carlo Tenca rincarava la dose, sostenendo che i ritratti «non sono mai né la migliore né la più pregiata parte dell’ Esposizione» e dannosi «all’arte, perché distolgono i pittori, specialmente i giovani, da opere più importanti, avvezzandoli a facili lavori e al facile lucro». Mentre Giuseppe Rovani aveva paragonato la frequentazione da parte dei «semidei e di quelli che raccomandavano alla tela la propria faccia» dell’atelier di Molteni, il ritrattista più richiesto dalla Milano romantica, a quella dello studio del celebre dentista inglese Waite Prevale. In questa ingiusta condanna, che nella mostra trova la più clamorosa smentita, prevale il pregiudizio romantico che quanto eseguito su commissione o per motivi commerciali non possa mai diventare arte. Mentre ora siamo ben convinti quanto invece le vie dell’arte siano infinite e il capolavoro possa scaturire dalle più diverse circostanze.
A metà del secolo la concorrenza della fotografia, ormai sempre più utilizzata nel settore del ritratto, determinava una concorrenza che finì con il favorire, più che danneggiare, pittori e scultori, impegnati nello sperimentare soluzioni rivoluzionarie da cui derivava un diverso modo di vedere e restituire in immagini la realtà. La libertà dell’interpretazione prevaleva rispetto alla fedeltà dell’imitazione. Di queste nuove frontiere del ritratto si parla molto nel romanzo scritto e ambientato in Italia, Il fauno di marmo (1860), dell’americano Nathaniel Hawthorne. Vi troviamo questa straordinaria riflessione: «Gli artisti amano farsi l’autoritratto. A Firenze ce ne sono centinaia in una galleria, compresi i più illustri e in tutti ci sono elementi autobiografici, così per dire: lineamenti, espressioni, singolarità, piacevolezze, che sarebbero rimaste invisibili se non fossero state dipinte dall’interno. Eppure, in realtà e schiettezza loro non ne sono diminuite». La capacità di sintesi tra la sperimentazione visiva e una nuova forza introspettiva scandisce il glorioso percorso del ritratto nell’ultimo quarto del secolo, tra le ricerche dei naturalisti, della Scapigliatura, del Divisionismo, del Simbolismo, spesso suggestionate da letterati di successo come Carducci, D’Annunzio, Fogazzaro, sino ad approdare alle due strepitose carriere, sullo scenario internazionale di Parigi tra Otto e Novecento, del ferrarese Boldini e del livornese Modigliani, ultimo testimone nel percorso della mostra. Era stato lui, ricorderà l’amico Cocteau, a segnare «la fine di una profonda eleganza a Montparnasse, ma non lo sapevamo. Pensavamo invece che quelle lunghe giornate di pose da Kisling, quei disegni da caffè, quei capolavori a cinque franchi, quelle baruffe, quegli abbracci sarebbero durati per sempre».