Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 05/06/2010, 5 giugno 2010
I LIBICI E LE REGOLE VIOLATE IN UNICREDIT
Meglio una dittatura araba sedicente socialista o investitori istituzionali italiani legati alle comunità locali? L’articolazione del capitale consente al banchiere il divide et impera. È un bene o un male? Dipende. Nel caso di Unicredit, l’azionariato di comando si articola sulle fondazioni bancarie e su soci statali libici in crescita; rilevanti, ma fuori dalla gestione, il fondo sovrano di Abu Dhabi e il fondo americano Blackrock; poco rilevanti ma presenti in consiglio alcuni privati italiani ed europei. È l’assetto ideale? Management, amministratori, Banca d’Italia e governo devono rispondere. Cavarsela con un «è il mercato, bellezza!» sarebbe come abdicare alle proprie responsabilità: con la Grande Crisi il mondo è cambiato; e il fatto che Unicredit non abbia preso i Tremonti bond, scelta meritevole, non basta a ricostruire ad personam il liberismo bancario.
Breve riepilogo. Il fondo sovrano Lybian Investment Authority (Lia) rastrella il 2% di Unicredit senza che il consiglio di amministrazione ne sia informato, nonostante gli acquisti azionari vengano effettuati attraverso la banca di piazza Cordusio. La Central Bank of Lybia (Cbl) ha già il 4,9. Tripoli, di fatto, diventa il primo azionista. E potrebbe salire al 10%. Ma, secondo lo statuto di Unicredit, nessuno vota per più del 5%. Può dunque votare la Lia? Il nuovo socio, entrato senza chiedere permesso, ha in mano il parere favorevole di uno studio legale consegnato informalmente dagli uffici di Alessandro Profumo. Ma Lia e Cbl sono due corpi e un’anima sola: in Libia tutti rispondono a Gheddafi, e il banchiere centrale Fahrat Bengdara, vicepresidente di Unicredit, è anche consigliere della Lia. Vale dunque la pena di attendere il parere ufficiale della banca, richiesto per lettera dalla Banca d’Italia anche ai fini di vigilanza, e pure l’indagine Consob sulla scalatina, visto che nei periodi price sensitive i soggetti legati agli amministratori — com’è la Lia dove c’è Bengdara — non avrebbero potuto trattare azioni della banca. I nodi di legittimità non si sciolgono con l’elogio storico dei libici fatto, in tempi diversi, da chi li ha già avuti soci: in Fiat e Banca di Roma, Tripoli portò capitali freschi, mentre di Unicredit, ora, ha comprato titoli già emessi. Se è un investitore puro, la Lia non avrà bisogno di votare. Qualora fosse insoddisfatta, venderà. Del resto, come chiudere un occhio con soci esteri opachi quando si son pretesi rigore e ben altri denari da fondazioni italiane e trasparenti? Nel 1988 Reagan fermò la Comit pronta all’Opa amichevole sulla Irving Bank per molto meno: era controllata dall’Iri, e tanto bastò benché fosse una banca quotata di un Paese della Nato. Ma sarebbe un peccato se tali critiche conducessero a chiusure provinciali.
Il progetto europeo di Profumo resta interessante. Ma proprio per questo, al di là della violazione o meno delle regole, l’opzione della Quarta sponda è poco in rapporto alle opportunità globali che verrebbero intrecciando rapporti con le grandi entità finanziarie dei Paesi emergenti, a cominciare da quelle cinesi e indiane.
❜❜ In Fiat e Banca di Roma, Tripoli portava capitali non comprava titoli già emessi