Giornali vari, 10 maggio 2010
Anno VII – Trecentoventunesima settimana. Dal 3 al 10 maggio 2010Resuscitato Domenica sera l’euro sembrava morto, lunedì mattina, al termine di un negoziato che ha coinvolto per due giorni capi di stato, capi di governo, governatori delle banche centrali e da ultimo – per undici ore consecutive nella notte di domenica – i ministri delle Finanze dei 27 paesi, pareva mezzo resuscitato, grazie a un piano da 720 miliardi col quale si dovrebbero scoraggiare i venditori più accaniti e fermare i ribassi
Anno VII – Trecentoventunesima settimana. Dal 3 al 10 maggio 2010
Resuscitato Domenica sera l’euro sembrava morto, lunedì mattina, al termine di un negoziato che ha coinvolto per due giorni capi di stato, capi di governo, governatori delle banche centrali e da ultimo – per undici ore consecutive nella notte di domenica – i ministri delle Finanze dei 27 paesi, pareva mezzo resuscitato, grazie a un piano da 720 miliardi col quale si dovrebbero scoraggiare i venditori più accaniti e fermare i ribassi. La prima reazione, quella in corso mentre scriviamo, è positiva: Tokyo, precipitata nelle giornate di giovedì e venerdì, ha chiuso con un +1,6, le Borse europee viaggiano mediamente con rialzi di oltre il 6%.
Moody’s Giovedì 6 e venerdì 7 maggio sono state le due giornate campali delle Borse. Giovedì a Wall Street qualcuno ha sbagliato a digitare (?) trasformando una vendita di 16 milioni di titoli in una vendita di 16 miliardi di titoli. I computer, che accentuano il trend dei fenomeni vistosi (comprando se il valore dei titoli sale troppo e vendendo se esagera a calare), hanno spinto Wall Street e il resto del mondo definitivamente in giù, diffondendo un gran panico, facendo cadere l’euro sotto quota 1,27 e massacrando le obbligazioni dei paesi deboli, in particolare Spagna e Portogallo, i cui tassi d’interesse sono volati a quel punto verso vette proibitive. In questa situazione, Moody’s (l’agenzia che valuta l’affidabilità di chi chiede un prestito) ha pensato bene di assestare il colpo di grazia ai mercati diffondendo la prima parte di un rapporto intitolato Sovereign Contagion Risk nel quale si sosteneva che il contagio dei rischi legati al debito sovrano potrebbe diffondersi a Portogallo, Spagna, Italia, Irlanda e Gran Bretagna.
Neuro Si chiama “debito sovrano” quello contratto dagli Stati. Questo “debito sovrano” è cresciuto enormemente dopo la crisi dei subprime di due anni fa: per salvare le banche sull’orlo del fallimento, gli Stati in prima persona si sono accollati le loro difficoltà, mentre le due banche centrali – Bce e Fed – facevano stampare di gran carriera un’impressionante quantità di carta. Passati due anni, la questione è in definitiva assai semplice: sono in grado gli Stati di pagare i debiti che hanno contratto? Dalla Grecia è arrivata una prima risposta, ed è negativa: gli Stati non sarebbero in grado, e specialmente quelli più specializzati in finanza allegra, cioè, dopo la Grecia, Portogallo Irlanda Spagna e, però a notevole distanza, Italia. Domanda successiva: è in grado, almeno, l’Unione europea di salvare uno dei suoi Stati dal fallimento, con prestiti o altre manovre? L’incertezza con cui i vertici continentali sono intervenuti in soccorso di Atene ha autorizzato parecchi dubbi. Primi accenni di rivolte hanno fatto pensare che, anche intervenendo, sarebbe poi difficile far accettare ai cittadini i sacrifici necessari a restituire i denari ricevuti. Quindi si è maturata con ragionevole certezza l’opinione o che la Ue non sarebbe veramente in grado di intervenire oppure che il Paese temporaneamente salvato andrebbe comunque prima o poi in default cessando di restituire il dovuto. Conseguenza ultima: campane a morto per la nostra moneta, destinata a esser disintegrata dalle differenze tra le economie dei Paesi membri e a essere sostituita perciò da un euro-nord (o neuro), buono per le aree virtuose del continente, e da un euro-sud da battere in posti come la Grecia o l’Italia meridionale. A meno che in questi Paesi non si fosse preferito, senz’altro, il ritorno alla dracma, alla lira, alla peseta eccetera.
America Altra questione: la tempesta del 6-7 maggio è per caso anche frutto di un piano segreto americano per affossare la valuta europea e riportare in auge il dollaro? La risposta è sì. Le istituzioni finanziarie americane si sono impegnate a comprare e far comprare dollari e a vendere euro, contribuendo in ogni modo a deprimerne la quotazione, su pressione cinese. Pechino ha 3000 miliardi di dollari nelle sue riserve e una caduta di valore del biglietto verde la metterebbe seriamente in crisi. La distruzione dell’euro porterebbe agli Stati Uniti un vantaggio effimero: un’area di mezzo miliardo di consumatori impoverita di almeno un buon terzo nella sua capacità di spesa sottrarrebbe ai mercati una fetta di consumatori decisiva e gli americani sconterebbero amaramente la loro presunta vittoria. Gli Stati Uniti hanno un rapporto debito/pil al 120% (come la Grecia) e un indebitamento integrato (cioè Stato + famiglie) pari al 300 per cento del prodotto interno lordo.
Misure Le misure decise o progettate lo scorso week-end sono in definitiva queste: fondo di 720 miliardi, da usare o direttamente per prestar soldi (60 miliardi dalla Ue e 220 dal Fmi) oppure per garantire i prestiti dei paesi con scarso credito planetario (440 miliardi dei 16 paesi dell’Eurozona: gli inglesi non ci stanno); rafforzamento dell’ufficio statistico (Eurostat) per accertar meglio lo stato dei conti pubblici dei membri; acquisto da parte della Bce di titoli-spazzatura (una misura molto discussa, a causa della sua alta capacità inflattiva); creazione di un’agenzia di rating europea, effettivamente al di sopra delle parti e maggiormente affidabile delle tre che dominano il mercato e che hanno avuto tante responsabilità nella crisi dei subprime (qui l’obiezione è che l’agenzia europea sarebbe in conflitto di interessi al momento di assegnare il rating alle emissioni dei paesi membri). Dovrebbe anche essere preso, d’accordo però con gli americani, un provvedimento che impedisca a queste agenzie di parlare a mercati aperti.
Scajola Lunedì 3 maggio, Gianni Letta ha spiegato a Berlusconi che la gestione politica del caso Scajola risultava troppo costosa e il presidente del Consiglio ha fatto rientrare di corsa il suo ministro da Tunisi, dove sarebbe dovuto stare due giorni, e lo ha persuaso a dimettersi. Scajola era ministro delle Attività produttive. Un’inchiesta di magistrati perugini sul costruttore Anemone, assai favorito da quelli della Protezione civile, aveva rivelato che Scajola, nel 2004, aveva ricevuto 900 milioni tratti dai conti di Anemone per comprare un appartamento vista Colosseo. L’ex ministro ha sempre negato sostenendo da ultimo che i 900 milioni, se esistono, sono stati versati alle due sorelle venditrici a sua insaputa. Per ora la carica di ministro delle Attività produttive è stata presa, a interim, dallo stesso Berlusconi.
Elezioni inglesi Le elezioni inglesi (giovedì 6 maggio) si sono concluse con la vittoria dei conservatori e la fine dopo 13 anni della leadership laburista. Ma i giochi non sono chiusi. Al vincitore David Cameron mancano 20 seggi per avere la maggioranza assoluta ed è in corso una trattativa, piuttosto difficile, con Nick Clegg, il capo del terzo partito, quello dei Liberaldemocratici. Potrebbe ancora esserci – in caso di fallimento di questa trattativa – un ritorno in corsa del premier uscente Gordon Brown.
Veronica Sabato pomeriggio (8 maggio) Silvio Berlusconi e sua moglie Veronica, chiusi nella stanza del presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro e avendo di fronte il giudice della nona sezione civile Gloria Servetti, hanno raggiunto un’intesa di massima per por fine al loro matrimonio. La villa di Macherio resterà a lei, la pretesa di un assegno di mantenimento di tre milioni al mese sarà abbassata (si parla ora di 700 mila euro), si studierà una sistemazione per i tre figli, e infine Veronica rinuncerà alla separazione per colpa accontentandosi di quella consensuale. Quando sarà fissata l’entità dell’assegno, si potrà procedere alla separazione legale. Per il divorzio, poi, ci vorranno altri tre anni.