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 1994  aprile 26 Martedì calendario

Torino – Una buona parte del prezioso archivio dei Savoia, lasciato in eredità all’Italia dal suo ultimo re, Umberto II, e consegnato dopo dieci anni di polemiche l’11 febbraio dalla principessa Maria Gabriella all’archivio di Stato di Torino, è rimasta in Svizzera

Torino – Una buona parte del prezioso archivio dei Savoia, lasciato in eredità all’Italia dal suo ultimo re, Umberto II, e consegnato dopo dieci anni di polemiche l’11 febbraio dalla principessa Maria Gabriella all’archivio di Stato di Torino, è rimasta in Svizzera. Non c’è traccia, in particolare, di due documenti considerati fondamentali: il dettagliatissimo diario del segretario di Carlo Alberto, il “re tentenna” del Risorgimento che abbiamo studiato sui libri di scuola, e l’agenda di Vittorio Emanuele III, che ha regnato in momenti delicatissimi del nostro Paese come l’avvento del fascismo e la seconda guerra mondiale. È questa la conclusione a cui sono pervenuti la direttrice dell’Archivio di Stato di Torino, Isabella Ricci Massabò, e i suoi collaboratori dopo oltre un mese di lavoro per studiare, ordinare e confrontare il “tesoro” reale. Nelle severe stanze dell’Archivio torinese non si nasconde una grande amarezza. «Da tempo attendevo con ansia la restituzione delle carte dei Savoia», lamenta la professoressa Ricci, la persona che materialmente ricevette l’archivio dalle mani della principessa Maria Gabriella «perché speravo che avrebbero consentito di riscrivere la storia d’Italia, sia quella del secolo scorso sia di quello attuale. Confesso che quando nell’ambasciata italiana di Ginevra ho visto le famose tredici casse mi sono commossa. Il momento tanto atteso da studiosi, ma anche semplici appassionati di storia, sembrava arrivato. «Per questo adesso la delusione è ancora più cocente: più della metà del materiale che Umberto II voleva trasmettere allo Stato italiano non c’è. Interi periodi storici sono stati così “cancellati”. Pressoché inesistente, per esempio, è la documentazione sul regno di Umberto I. E praticamente niente abbiamo trovato di Umberto II. Dove sono tutte le carte mancanti? Chi le custodisce? Perché non sono restituite?». Queste domande non sono frutto di supposizioni ma si basano su dati di fatto. Infatti gli archivisti torinesi hanno potuto confrontare l’inventario di ciò che hanno trovato oggi con un precedente inventario, quello fatto dalla commissione che si recò a Cascais, a Villa Italia, con il compito di controllare e sistemare l’archivio, il 19 maggio 1983, appena due mesi dopo la morte di Umberto II. Era stato lo stesso re un anno prima a dare il benestare a quella commissione mista composta da sei persone: due rappresentanti dello Stato italiano e 4 esponenti di famiglie storiche legate da secoli alla dinastia. «Dal verbale della commissione volata a Cascais», dice la direttrice dell’Archivio di Torino «risulta che il “tesoro” dei Savoia era suddiviso in 217 dossier “faldoni”. In tutto gli eredi ne hanno consegnati a noi 88». Mancano all’appello 120 dossier; quasi il 60 per cento dell’intero patrimonio». Come si vede, le cifre parlano da sole e spiegano bene la delusione dei responsabili dell’Archivio torinese. Ma quali sono i documenti più importanti che gli storici si aspettavano di trovare nelle casse dei Savoia e di cui, invece, non c’è traccia? L’archivio dei Savoia, che copre il periodo dal 1800 sino al 1946, riserva una brutta sorpresa sin dall’inizio. Manca, infatti, il diario del segretario di Carlo Alberto, il conte Cesare Trabucco di Castagnetto. Probabilmente quel reperto direbbe poco ai profani, ma di sicuro farebbe la felicità di tanti esperti. Sentite come ne parla la professoressa Ricci: «È un documento ricercato da tutti gli studiosi del Risorgimento e della storia piemontese da oltre un secolo». Questo diario ha una storia avventurosa che rende meno assurda e inspiegabile la scomparsa di un documento risalente a qualcosa come un secolo e mezzo fa. Questa storia è raccontata da una delle carte restituite dai Savoia. Dopo la morte di Carlo Alberto nell’esilio di Oporto, avvenuta il 28 luglio 1849, il suo fedele segretario, il conte di Castagnetto, era caduto in disgrazia. Lui, che era stato un uomo potente, doveva vivere con seimila lire all’anno. L’ex altissimo funzionario ebbe un’idea: si rivolse al nuovo re Vittorio Emanuele II, figlio di Carlo Alberto, e gli propose di acquistare il suo diario e le lettere del re che egli aveva conservato. Per decidere se ne valeva la pena, Vittorio Emanuele II chiese di esaminare lo scritto e lo affidò a un suo fedele collaboratore Luigi Cibrario, già ministro dell’Istruzione e degli Esteri. Cibrario, considerato uno dei maggiori storici dell’epoca, lesse il diario, composto da 107 quaderni, e ne riferì al re con queste parole: «Si tratta di materia delicatissima» perché il conte di Castagnetto «aveva occasione di vedere quasi ogni giorno Carlo Alberto e di dibattere lungamente con esso; e, di più, essendo stato adoperato in negozi segreti e importanti, ebbe in pensiero di registrare man mano tutto quanto». Il diario del segretario di Carlo Alberto «riferisce minutamente e fedelmente ogni cosa, per modo che se ne ricava non un ritratto, ma una fotografia di quel principe. Molti fatti ignoti sono rivelati, molti oscuri chiariti». Naturalmente il consigliere di Vittorio Emanuele II concluse che il diario del segretario di Carlo Alberto «non è da lasciarsi entro mani private, con pericolo che venga un giorno pubblicato», anche perché, sempre secondo il collaboratore di Vittorio Emanuele II «Carlo Alberto era un principe del Medio Evo: grandi qualità frammiste a molti difetti. Benché autore della nostra libertà, niuno amava più di lui l’autorità assoluta, e qualche volta l’esercitò duramente». Insomma, il diario del conte di Castagnetto era molto scottante e scomodo, in esso «non mancano fatti che potrebbero sminuire la gloria» di Carlo Alberto. Come andò a finire? Facile prevedere la risposta. Vittorio Emanuele II ascoltò i consigli di Luigi Cibrario: meglio nascondere dentro un cassetto il famoso diario che rischiava di compromettere l’immagine di Carlo Alberto. Così lo acquistò: tra l’altro, non costava nemmeno molto. «In tutti questi anni è rimasto ai Savoia», dice la professoressa Ricci «numerosi testimoni lo hanno visto a Cascais tra le carte conservate da Umberto II ma a Torino non è arrivato». Lasciamo Carlo Alberto e passiamo al figlio Vittorio Emanuele II, il re dell’Unità d’Italia, l’artefice, con Cavour, Mazzini e Garibaldi, del Risorgimento. «Con lui la situazione va meglio, ma non di molto», continua Isabella Ricci. «Degli 88 dossier consegnati dai Savoia, cinquanta si riferiscono al suo regno. Peccato, però, che una ventina contengano soltanto telegrammi in codice, difficili da decrittare. È un po’ poco per un monarca che ha attraversato la storia del 1800 e manteneva scambi epistolari con tutti gli uomini che contavano». Anche questa affermazione si basa su una prova concreta e anche qui c’è una storia di intrighi e polemiche da raccontare. «Nel 1893 il ministro Crispi, su suggerimento della Real Casa», continua la professoressa Ricci «nominò una commissione composta dal barone Manno, dal barone Carutti e dal barone Bollati con il compito di passare al setaccio l’archivio dei Savoia che era pubblico, separare i documenti privati da quelli pubblici, scegliere i più scottanti e costituire con quelli un vero e proprio archivio segreto, non più accessibile agli studiosi. La decisione scatenò l’ira dell’opinione pubblica, ne parlarono tutti i giornali dell’epoca. Comunque, pur in mezzo alla bufera, la commissione dei tre baroni portò a termine il suo lavoro. «In quel periodo lo studioso Domenico Persero pubblicò un opuscolo, intitolato, “Sullo sventramento di un archivio pubblico a benefizio di un risorto archivio segreto”, che ho ritrovato quasi per miracolo in una delle nostre stanze. Vi si legge che i tre baroni sottrassero dall’archivio pubblico e riportarono in quello segreto tutte le lettere di Vittorio Emanuele II, comprese quelle tra il re e Carlo Alberto. Ebbene, salvo poche eccezioni, non abbiamo molto nell’archivio dei Savoia di quel materiale che un secolo fa si ritenne opportuno ritirare dalla pubblica vista». Un altro passo avanti nel parlare di Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico il 29 luglio 1900: «Sul suo regno», dice sconsolata la professoressa Ricci «la documentazione contenuta nell’archivio dei Savoia è praticamente inesistente. I reali hanno consegnato quella relativa alla giovinezza, all’educazione e al patrimonio di Umberto I, e non c’è un documento, che sia uno, di carattere politico». Carta dopo carta, delusione dopo delusione, siamo arrivati così a Vittorio Emanuele III e al suo lungo regno che va dal 1900 al 1946. Era questa parte dell’archivio da cui ci si aspettava di più. Essi speravano che le carte di Vittorio Emanuele III, il suo scambio epistolare con i più importanti politici dell’epoca potessero fare piena luce su avvenimenti fondamentali della nostra storia come la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, l’alleanza tra Mussolini e Hitler, la seconda guerra mondiale, l’armistizio del ’43. «Ma le speranze sono andate deluse. Tutto ciò che abbiamo trovato del ventesimo secolo è un diario di guerra dal 1915 al 1918 dell’aiutante di campo del re, Francesco Avogadro degli Azzoni», dice la professoressa Ricci. «Che cosa in particolare di Vittorio Emanuele II pensavate di trovare?». «Speravamo di poter mettere le mani sulla corrispondenza segreta tra il re e il presidente francese Albert Lebrun alla vigilia della seconda guerra mondiale». Ma la delusione più cocente riguarda la mancanza di un altro documento: il famoso diario di Vittorio Emanuele III. Si dice che il re fosse così meticoloso nell’annotare fatti e impressioni quotidiani che con quel diario, sarebbe possibile ricostruire i 46 anni tormentati del suo regno. I ricercatori dell’archivio di Torino fanno notare che quel preziosissimo documento si trovava sicuramente a Cascais e portano come prova questa testimonianza: nel 1951 il giornalista scrittore Ugo d’Andrea si recò in visita a Villa Italia da Umberto II e il re gli diede il permesso di leggere il diario di Vittorio Emanuele III. D’Andrea fece le fotocopie di alcune pagine e le pubblicò nel libro La fine del Regno, grandezza e decadenza di Vittorio Emanuele III, un volume conservato naturalmente negli scaffali dell’archivio torinese. Dov’è finito quell’insostituibile documento che permetterebbe di riscrivere un periodo ancora molto attuale e avvolto da tante ombre della storia del nostro Paese? A questa domanda la principessa Maria Gabriella ha dato la sua risposta affermando che quando il 24 ottobre del 1952 morì la regina Elena, consorte di Vittorio Emanuele III, fu la zia Jolanda a custodire il diario del padre, ma, sempre secondo Maria Gabriella, sembra che Jolanda lo abbia bruciato qualche giorno dopo. Siamo così arrivati all’ultimo capitolo, il periodo di Umberto II. Nessuna delle 53 cartelle di pertinenza del “Re di maggio”, come venne chiamato, trovate dalla commissione che si recò a Cascais è stata restituita. Lo stesso vale per le due cartelle che vennero catalogate come “Regina Elena”. «Di Umberto II non c’è stato dato nulla, non capisco perché», lamenta la professoressa Ricci. Secca dalla Svizzera la risposta della principessa Maria Gabriella: «Di mio padre ho trattenuto solo il carteggio privato». Che cosa succederà adesso? Dopo dieci anni di polemiche, attese, contatti diplomatici, la restituzione dell’archivio dei Savoia sembrava un caso risolto e invece resta una mina vagante. Sul tavolo del ministro dei Beni culturali, Alberto Ronchey, sono arrivati nei giorni scorsi l’inventario e la relazione conclusiva, non certo confortanti, fatti a Torino. Tocca al ministro, ora, decidere se accontentarsi o chiedere la parte mancante del “tesoro” dei reali. Terminato il lavoro che le spettava, la professoressa Ricci esce di scena. Lo fa con parole di fuoco: «Mi auguro davvero che la vicenda non sia conclusa. Non so sotto il profilo giuridico, ma di sicuro da un punto di vista etico il testamento di Umberto II non è stato rispettato: il re voleva donare il suo archivio allo Stato italiano. Ciò non è stato fatto perché mancano troppe carte, spero che i suoi eredi lo capiscano. Umberto voleva che queste carte servissero a costruire una storia della dinastia e per questo aveva inserito nel legato testamentario anche documenti che riguardavano lui e suo padre, Vittorio Emanuele III. Se non vengono riconsegnati all’Italia, se restano in Svizzera o da qualche altra parte, si fa uscire dalla storia un personaggio, Umberto II, che nella storia voleva entrare». Fulvio Cammarano