Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 02 Lunedì calendario

STORIA D’ITALIA IN 150 DATE

28 settembre 1911
Bel suol d’amore
Tripoli, arriviamo. L’ambasciatore italiano a Costantinopoli è latore di un ultimatum che i turchi (del cui impero fa parte la Libia) discuterebbero volentieri, se solo se ne desse loro il tempo. Ma il tempo non c’è, perché gli italiani non vogliono Tripoli. Vogliono la guerra. Nonostante i nazionalisti la descrivano come un incrocio fra l’Eden e l’Eldorado, la Libia è solo «uno scatolone di sabbia», secondo la celebre definizione di Salvemini. Sotto lo scatolone c’è il petrolio, ma noi non lo sappiamo e comunque non sapremmo ancora che farcene. E allora perché andarci? Per offrire nuovi mercati agli industriali del Nord e «un posto al sole» agli emigranti del Sud? Propaganda. La ragione vera è psicologica: da quando è unita, l’Italia non ha vinto niente, conquistato niente. Il Mare Nostrum è tutto degli altri, inglesi e francesi, e la sconfitta di Adua non ha mai smesso di aleggiare come un’onta sul nostro presunto spirito guerriero. Nel Paese si diffonde il verbo nazionalista, gorgheggiato persino dal timido Pascoli e con ben maggiore padronanza da D’Annunzio, che ribattezza Gea della Garisenda la soubrette che va in giro per teatri a scandalizzare le matrone cantando «Tripoli bel suol d’amore», vestita solo di una bandiera tricolore. Gli unici a far stecca sul coro sono due pacifisti romagnoli, che al grido di «né un uomo né un soldo» si sdraiano davanti a un treno militare: Nenni e Mussolini finiscono in galera insieme, ma il futuro li dividerà presto.
Per non correre rischi Giolitti spedisce in Libia un’armata intera, che conquista Tripoli e le altre città della costa quasi senza colpo ferire. I turchi sono deboli e gli indigeni ci amano: così almeno si illudono i nostri. Dovranno ricredersi a metà ottobre, quando i «terroristi» libici sterminano un reggimento di bersaglieri. La delusione innesca la rappresaglia. Altro che italiani brava gente! Quattordici ras locali vengono impiccati nella piazza del Pane, gli altri uccisi o deportati a Ustica. Gheddafi non ha ancora smesso di rinfacciarcelo. La conquista delle oasi interne è un miraggio, anzi un incubo. Giolitti, furibondo per i soldi spesi, accusa i suoi generali di scarso spirito di iniziativa: appena vincono una scaramuccia, invece di inseguire il nemico e finirlo, si precipitano a scrivere comunicati trionfali. Per arrivare a una pace decente ci vorranno l’apertura di un secondo fronte sull’Egeo e la mossa del cavallo ideata dal solito italiano di talento: il capitano Millo, che con un raid di navi leggere forza lo stretto dei Dardanelli. È lui a darci un acconto di gloria militare, quanto basta per ora a placare l’appetito dei nazionalisti, in attesa di nuove e più cruente carneficine.