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 2010  agosto 02 Lunedì calendario

Se mamma lavora, il figlio è felice - Schiacciate dai sensi di colpa e convinte da anni di ricerche terroristiche che la vita dei propri figli sarebbe stata serena solo se per tutelarli avessero lasciato il lavoro nei primi anni post-parto, le mamme di tutto il mondo scoprono adesso, grazie a uno studio della americana Columbia University School of Social Work su mille bambini in 10 areee geografiche disomogenee, che impegno professionale o meno, ossessiva vita famigliare o diligente applicazione impiegatizia, per la crescita sana dei nuovi arrivati non cambia assolutamente nulla

Se mamma lavora, il figlio è felice - Schiacciate dai sensi di colpa e convinte da anni di ricerche terroristiche che la vita dei propri figli sarebbe stata serena solo se per tutelarli avessero lasciato il lavoro nei primi anni post-parto, le mamme di tutto il mondo scoprono adesso, grazie a uno studio della americana Columbia University School of Social Work su mille bambini in 10 areee geografiche disomogenee, che impegno professionale o meno, ossessiva vita famigliare o diligente applicazione impiegatizia, per la crescita sana dei nuovi arrivati non cambia assolutamente nulla. Così, con un meraviglioso colpo di scena, finiscono al macero i dossier dell’Unicef che nel 2008 consigliava di stare di fianco ai pargoli almeno nei primi 12 mesi della loro esistenza per non metterne a rischio lo sviluppo e le elaborate analisi dell’Istituto per le Ricerche Sociali ed Economiche dell’Università dell’Essex, arrivate alla conclusione che la mamma aggrappata alla carriera nei primi tre anni di vita del figlio condanna lo sventurato a un apprendimento più lento e difficoltoso. «Peccato che la domanda alla base di queste indagini fosse sostanzialmente sbagliata». Meraviglioso. Jane Waldfogel, professoressa della Columbia University e della London School of Economics, curatrice dello studio, è una signora dalle certezze incrollabili. «La nostra ricerca è unica non solo per il livello di approfondimento, ma perché in passato il punto di partenza è sempre stato: se le altre condizioni rimangono inalterate, quanto risente un bambino di una mamma che va a lavorare? Naturalmente, però, se una mamma lavora o meno le condizioni mutano radicalmente. Diminuiscono le entrate famigliari, è maggiormente a rischio la salute mentale dei genitori e anche il livello di attenzioni mediche si abbassa. Meno soldi portano meno cure. Noi abbiamo messo ogni singolo fattore sulla bilancia». Risultato? «Zero a zero. I vantaggi e gli svantaggi restano in equilibrio. La differenza è data dall’attenzione dei genitori alle esigenze dei bambini, anche se lavorano più di 30 ore la settimana». Respiro di sollievo universale. I blog dei siti come «Netmums» e «Mumandworking» si sono riempiti immediatamente di reazioni di giovani donne sollevate da un peso. Anne Lou Morgan ha deciso di raccontare la sua storia, mettendo in rete una foto di quando suo figlio Nicholas aveva tre mesi. A guardarli da lontano sembrano un carcerato e un carceriere, anche se il carceriere è piccolissimo e il carcerato, sua madre, lo porta in giro in carrozzina. Lei ha una faccia scavata e vuota ed è persa in una pensosità vecchia come il Creato. «Credevo che la mia vita fosse finita. Io non c’ero più, c’era solo lui, era il mio destino. E al lavoro non mi avrebbero aspettato per molto. Ho passato mesi infernali». Poi il marito l’ha tirata per un braccio e le ha detto: «O torni in ufficio o ti prendo a pedate». Lei ha apprezzato. «Sono rinata, ma mi sentivo in colpa. Ora questa ricerca mi apre il cuore». Secondo i dati dell’istituto nazionale di statistica, per altro, crescere un figlio in Inghilterra costa ai genitori 800 sterline al mese e una famiglia su cinque non è in grado di reggere il peso del nuovo esborso. Rinunciare al lavoro significa condannarsi a non avere i soldi per pagare il mutuo. «E solo se prendo uno stipendio posso pagarmi l’asilo», chiosa Anne Lou. Cancellato il trauma da casalinga forzata. Altro sito, altra mamma. Un panorama scolorito, giallastro, nebbioso, era l’immagine fissa con cui faceva i conti Julie Wilson, quaratatreenne impiegata di banca. «Quando è nata Anna ho pensato: per me non cambia nulla. E’ cambiato tutto, ma il lavoro no, quello me lo sono tenuto. Anche se mia madre insisteva: mollalo e pensa alla bambina. Ci ho pensato a lungo e per tre mesi sono rimasta in aspettativa. Stavo perdendo la testa. La mia vita in fondo conterà pure qualcosa, no? A me non serviva una prova scientifica: ho sempre saputo che mia figlia sarebbe cresciuta meglio se io fossi stata meglio». Il bicchiere di succo d’arancia le trema nella mano, mentre chiude il video che ha destinato alla rete. Salutando imbarazzata fissa la videocamera e cita William Blake: «L’Energia è l’Eterno Piacere». Niente, per lei, sarà più uguale a prima.