Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 02 Lunedì calendario

RENATO ZERO - "FREQUENTO IL MARCIAPIEDE, PER QUESTO MI AMANO"

«Ciao nì, che me fai un decaffeinato?». «Ma no Renati´, te preparo ´no scecherato, ch´è ppiù bbono». «´O so, però poi me aggita, mejo un decaffeinato». Renato Zero ha il teatro più grande del mondo: l´intera Roma. Quando passeggia per le vie del centro è tutta una commedia. Il palcoscenico, per lui che il 30 settembre compirà 60 anni, è ormai il salotto buono che si apre per le grandi occasioni, Natale, il pranzo di ferragosto, il compleanno che festeggerà insieme a «Roma sua» con sei concerti in piazza di Siena (29 e 30 settembre, 2, 3, 5 e 6 ottobre). «Niente a che vedere con lo "Zeronovetour". Ogni serata un evento unico, canzoni e ospiti diversi per ogni spettacolo. E poi stand con tutti i miei costumi, mostre fotografiche. L´ho chiamato "Sei Zero", come questa data che inesorabilmente incombe», dice sorseggiando il suo decaffeinato, mentre la capitale sonnecchia nell´ora caliginosa della siesta.
Con che spirito affronta i sessant´anni?
«Non ho avuto il tempo di prepararmi né ai venti né ai trenta né ai quaranta né ai cinquanta e oggi ai sessanta perché la mia vita è stata un gioco. Il gioco è quello che mi ha fatto amare Chaplin, Eduardo, De Sica, Fellini. Ricordo che io, da ragazzo, guardavo con gli occhi sgranati il Gassman trentenne… per me era come uno di 70 anni; in quegli anni si maturava in maniera diversa, si sperimentava, c´era meno diffidenza, l´artista cavalcava a briglie sciolte, senza ostacoli».
Oggi invece?
«Oggi è un extracomunitario nel proprio paese. Deve chiedere permesso, bussare con circospezione prima di entrare e agire. L´Italia, per noi artisti, è diventato un condominio con catenacci, chiavistelli e sistemi di allarme. Quando vedo un ragazzo alle prime armi, istintivamente ripenso ai miei 20 anni, alla diffidenza che avevo intorno e mi faceva soffrire - una forma di razzismo anche quella. I miei lustrini, i miei trucchi… che male facevano? Era una follia innocente e costruttiva».
Dunque siamo più conformisti di allora?
«Viviamo di rassicurazioni, ognuno deve avere un curriculum, credenziali… invece sappiamo bene che l´abito non fa il monaco. Ne abbiamo visti di arrogantoni in cravatta e doppiopetto finire in tribunale. Di questi signori non ha mai sospettato nessuno, di me invece sì, solo perché improvvisavo per strada il mio teatro. Sono partito dal basso, io. Oggi no, oggi si pretende subito l´eccellenza, il trenta e lode. La pubblicità suggerisce modelli di vita mostruosamente falsi: tutti belli, famiglie sane e allegre col piatto fumante di spaghetti in tavola. Non è così, la crisi è devastante, valori che scadono come lo yogurt… E l´arte non viene più in nostro soccorso, perché per chi comanda - lo dice la politica dei tagli - produrre arte è un lusso che non possiamo più permetterci. Insomma, se un Leonardo da Vinci si sta agitando dentro qualche placenta, stia pur certo che farà del tutto per tornare indietro».
Trecentomila dischi venduti dell´ultimo cd (Presente), centomila del dvd (Zeronovetour), 60 mila biglietti già andati a ruba per i concerti romani, 30 milioni di album nella carriera.
Non c´è male come consuntivo.
«Non mi soffermo sui numeri, lavoro al dettaglio, sono un bottegaio, un artigiano, la ragione sociale della mia ditta è Istinto Srl. Il pubblico mi ama perché vivo la strada più della gente qualunque, questa mia assidua frequentazione del marciapiede…».
Detto così suona male…
«… No, no, scriva così, marciapiede, suona benissimo. Io mi fermo a parlare con tutti, ho tempo per tutti. Il mio impegno con il pubblico non si esaurisce sul palcoscenico. Sono come Bice Valori e Aldo Fabrizi, persone meravigliose sulla scena e fuori».
Gentilezza e disponibilità non bastano mica ad avere il seguito che ha lei.
«Ci vuole talento, certo, ma neanche quello da solo basta. L´eccesso di bravura può essere controproducente, si risulta antipatici se dietro non c´è un´umanità vibrante».
E i detrattori?
«Dalle zone "alte" hanno cercato di massacrarmi in tutti i modi. Se avessi quei signori di fronte, li abbraccerei tutti, perché m´hanno fatto un favore, m´hanno aiutato a crescere, a sentirmi più responsabile, a amarmi di più, a adorare il mio lavoro. Il detrattore è un istituto indispensabile, non solo per l´artista, ma per chiunque voglia fare bene. Produce anticorpi formidabili».
Aveva nemici anche nelle borgate, all´inizio.
«Eccome! Scatenai una guerra che durò più della campagna di Russia. Dieci anni a incassare gli epiteti che volavano in aria alla Montagnola, il mio quartiere, dove si parlava una lingua molto dura, dove portare a casa un pezzo di pane o un titolo di studio era un miracolo… beh, dopo essere stato apostrofato in quel modo violento, incassare il loro applauso, essermi conquistato amicizie che ancora oggi coltivo… ecco, questo è il senso del mio successo, ciò che spiega il fenomeno Zero».
Il successo è fragile e questa consapevolezza rende gli artisti ancor più fragili. Lei ha mai paura di perderlo?
«Quello che mi mancherebbe di più, nella triste eventualità che il successo mi abbandonasse, sarebbe il saluto del tassista o la tenerezza di un´anziana signora che mi stringe la mano».
Lo dice ora, con la saggezza dei sessant´anni e una carriera decennale.
«Ovvio, da giovane ero più ambizioso e velleitario. Ma la cosa bella dell´età è proprio il fatto che toglie di torno il superfluo, lascia con la voglia di vivere l´essenziale. E, mi creda, quando uno riesce a vivere dell´essenziale ha vinto. L´essenziale mi rimette in sintonia con le mie origini marchigiane, con mio nonno Porfirio coi baffi a tortiglione e nonna Zelinda, pastori di undici figli cresciuti in povertà ma con grande dignità; con mio padre, che voleva fare il baritono e invece per necessità e amore di mia madre fece il poliziotto. Lo ricordo ancora quando venne a vedermi l´ultima volta, già malato, col plaid sulle ginocchia. Nella tenda di Zerolandia, Natale 1979 - sarebbe morto il 21 gennaio dell´80. A me la felicità non l´ha regalata nessuno, me la sono dovuta inventare. Non ho premi a casa, nel mio destino c´era scritto che io venissi premiato diversamente dagli altri artisti. A me le gratificazioni arrivano sempre e regolarmente dal basso».
Che ne sarebbe stato di Renato se fosse rimasto Fiacchini e non fosse diventato Zero?
«Nì,… io penso a voi… a quanto vi sarei mancato».