Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 31/7/2010, 31 luglio 2010
25. BRONTE. IL RISORGIMENTO E LA PERDITA DELL’INNOCENZA
Quattrocentocinquantasei anni non sono bastati a chiudere una volta per tutte il più interminabile tormentone giudiziario di tutti i tempi. Cominciò l’anno in cui Filippo II di Spagna portò all’altare Maria d’Inghilterra e Michelangelo cominciò a immaginare la Pietà Rondanini. E non è ancora finito. Tanto che, sorride Giuseppe Castiglione, presidente della provincia di Catania e coordinatore del Pdl isolano, «molti contadini che hanno avuto le terre della Ducea di Nelson con le riforme agrarie degli anni ‘50 e ‘60 mi risulta non abbiano mai completato le pratiche per l’assegnazione definitiva. Praticamente sono ancora proprietari provvisori».
Provvisorietà siciliana. Eterna. Se mezzo millennio non è stato sufficiente a esaurire una causa per la restituzione alla popolazione dei terreni dati inizialmente all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, c’è poi da stupirsi se nella città che più ricorda con rancore Nino Bixio esiste ancora la via Nino Bixio nonostante un quarto di secolo fa fu solennemente scalpellata la targa con scritto Nino Bixio? Ogni tanto, l’odio si ravviva di improvvise fiammate. Così come, a capriccio, sullo sfondo a levante, si ravviva l’Etna. Poi, come si placa il vulcano, si placa l’odio. Per un po’…
Capiamoci: c’è odio e odio. Assopito sotto le ceneri quello per Garibaldi, il suo braccio destro e i Mille, che repressero duramente esattamente 150 anni fa la sanguinosa rivolta di quei contadini che avevano preso troppo sul serio gli inviti alla rivolta contro i Borboni e i «borboniani», ne divampa oggi uno non meno velenoso e tutto isolano. Da una parte ci sono il senatore Pino Firrarello (che gli avversari descrivono il puparo e gli amici come il Richelieu del Pdl siciliano), suo nipote Giuseppe Castiglione detto Peppe, l’ex governatore Totò Cuffaro e infine il presidente del Senato Renato Schifani, uniti dal «patto del pistacchio». Dall’altra c’è il governatore attuale Raffaele Lombardo.
Una guerra frontale. Senza esclusione di colpi. Con reciproche accuse di inconfessabili rapporti d’affari e ambigui legami con ambienti mafiosi. Col governatore che usa parole da romanzone ottocentesco: «Gli ascari e i pupi, che fanno lo stesso mestiere dei capimafia, controllano che i potenti saccheggino la Sicilia. Ma noi non ci faremo intimidire dai mille sicari che questi ascari e pupi assolderanno. Stiamo sovvertendo secoli di saccheggi. Infangando me hanno infangato l’onore della mia terra. Io tengo al mio onore, alla mia libertà e in terza istanza alla mia vita». Risposta gelida di Don Pino Firrarello: «Questa poteva essere una stagione d’oro per la Sicilia. C’erano 14 miliardi di fondi strutturali vari. C’era un governo amico. C’era una maggioranza bulgara in consiglio regionale. Tutto buttato via per colpa di questo criminale politico».
Per capire cosa c’entri il pistacchio e come mai questo letale scontro intestino nella destra isolana possa avere oggi un’importanza determinante per lo stesso governo nazionale, occorre partire da lontano. E cioè, con l’aiuto prezioso di Franco Cimbali e del sito internet bronteinsieme.it ricco di dotte citazioni storiche, dal XV secolo. E dalla prepotenza dei frati della abbazia benedettina che teneva in pugno le terre della zona. Frati descritti da Benedetto Radice nel libro «Nino Bixio a Bronte» come «ribelli alla volontà dei re e dei papi, usurpatori dei beni finitimi del monastero (..) litiganti, congiuratori e mezzo briganti».
«Potevano quei pii monaci avere scrupolo d’invadere i beni di poveri rustici ignoranti?» si chiede lo storico. «Fu dunque facile a loro l’opera d’usurpazione, profittando della fede, dell’ignoranza, delle moltitudini sparse nelle masse. I monaci ingordi, non bastando loro i beni assegnati, agognavano l’altrui e crediamo che abbian potuto, con la complicità di mal nati cittadini, usurpare le terre comuni,». Fatto sta che l’immenso possedimento, 13.963 ettari via via passati per varie mani comprese quelle indecenti del cardinale Borgia, destinato a diventare papa col nome di Alessandro VI, aveva finito per entrare di fatto tra le proprietà dei Borboni. I quali nel 1799, come ringraziamento a Orazio Nelson, che li aveva aiutati a reprimere la Repubblica napoletana e si era assunto il compito di impiccare sulla sua nave Francesco Caracciolo, pensarono di fargli un regalo. Gli offrirono dunque, con un gesto medievale alla vigilia dell’invenzione del treno e del telegrafo, un feudo siciliano a scelta tra Partinico, Bisacquino o Bronte. Narrano che l’ammiraglio inglese, oltre che dalle informazioni sulla ricchezza di quelle terre, si lasciò guidare nella scelta dalla leggenda secondo cui Bronte era stata fondata dall’omonimo ciclope che coi fratelli Piracmon e Sterope era stato condannato a lavorare al servizio del dio Vulcano nelle viscere della montagna. «Anch’io ho un occhio solo» avrebbe detto Nelson, che aveva perduto l’altro in battaglia. E Bronte fu sua.
Certo, il regalo non gli portò bene. Morì a Trafalgar prima di vedere di cosa era padrone. E non venne mai neppure il primo dei suoi successori, William, padre di Lady Carlotta, la prima a fare capolino nel feudo. E via via, insomma, i Nelson trattarono quelle terre siciliane, gestite attraverso l’invio di amministratori dal pugno duro, come avrebbero potuto trattare un bananeto in Rhodesia. La prova, del resto, è sotto gli occhi di tutti al monastero fortificato, rilevato anni fa dal comune («fu una rivincita del paese che voleva riappropriarsi di quel simbolo di protervia» ricorda Pino Firrarello, anche allora sindaco come oggi) e noto come il castello Nelson: mobili inglesi, quadri inglesi, monili inglesi, stemmi nobiliari inglesi...
La cittadina, che oggi ha quasi ventimila abitanti, un reddito pro capite che secondo le stime di tre anni fa era di 6.589,9 euro (un terzo di Basiglio, Milano o Pino Torinese anche se superiore a quello della grande maggioranza dei comuni isolani ) una produzione media di 16.000 quintali di pistacchi sgusciati per l’80% esportati all’estero, è colpita oggi da una crisi pesante. Come la Sicilia, che secondo il presidente di Confindustria, Ivan Lo Bello, si ritrova con un reddito pro capite precipitato «a valori inferiori al 1974, quando era pari al 65% del reddito medio nazionale».
Niente a che vedere, tuttavia, nonostante la fatica che fanno le famiglie per arrivare a fine mese, con la situazione che trovò Carlo Levi nel 1952. «Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride e il tanfo prende alla gola. Le case, se cosi si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la mala-
ria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso».
Immaginate dunque come dovevano vivere i braccianti di Bronte un secolo prima. Quando dovevano dare ai Nelson il 60% del loro raccolto più la restituzione delle sementi. Come potevano non illudersi quando vennero diffuse i primi proclami di Garibaldi? Quello del 2 giugno 1860 non lasciava dubbi: «Giuseppe Garibaldi comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, in virtù dei poteri a lui conferiti, decreta: Art. 1. Sopra la terra dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la Patria. In caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede. Art. 2. La quota, di cui è parola all’articolo precedente, sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti..». Pareva al fianco loro, l’Eroe dei due mondi. Lo aveva ribadito nel Messaggio di cittadini del 13 giugno 1860: «A voi robusti figli dei campi (..) Voi potete tornare oggi alle vostre capanne colla fronte alta, colla coscienza di aver adempiuto un’opera grande. Come sarà affettuoso l’amplesso delle vostre donne inorgoglite dì possedervi accogliendovi festose nei focolari vostri. E voi conterete superbi ai vostri figli i pericoli trascorsi nelle battaglie per la santa causa dell’Italia. I vostri campi non saranno più calpestati dal mercenario, vi sembreranno più belli e più ridenti. Io vi seguirò col cuore nel tripudio delle vostre messi…».
E chi potevano essere i «mercenari» che calpestavano i loro campi se non i Nelson e i loro alleati? La presero sul serio, la rivoluzione. Troppo. Senza tener conto che Garibaldi, i Mille, i Savoia, dovevano molto all’Inghilterra. E questa faceva sì tifo per l’Unità, purché non fossero toccate le proprietà inglesi. Come finì, si sa. Delusi dalla decisione di non applicare ai possedimenti dei Nelson i proclami garibaldini, i «comunisti» brontesi, ché così si chiamavano rivendicando le terre comunali in contrapposizione ai «cappelli», i borghesi che stavano con i «ducali», si lasciarono travolgere dal furore.
Fu un’ondata di violenza mai vista, frutto di secoli di violenza subita. Sedici morti ma il peggio, avrebbe scritto Giovanni Verga, «avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: — Neddu! Neddu! — Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anche esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. — Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; — strappava il cuore! — Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni — e tremava come una foglia. — Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».
Riconosce oggi il senatore Firrarello, pur rivendicando di essere stato lui a convocare nel 1985 a Bronte il processo pubblico a Nino Bixio che vide la partecipazione, tra gli altri, di giuristi celeberrimi, che no, «il braccio destro di Garibaldi non aveva alternative alla legge marziale. La situazione si era fatta incandescente». Fatto è che nella coscienza non solo dei brontesi ma di tutti i meridionali che hanno letto Radice e Sciascia o hanno visto il film di Florestano Vancini («non c’è ragazzo della mia generazione che non l’abbia visto tre volte: elementari, medie e superiori» sorride Vincenzo Pappalardo, autore del libro «L’identità e la macchia / Il battesimo della coscienza civile a rompere nel dibattito sulla strage del 1860») la brutale repressione dei contadini etnei è il simbolo stesso della fine della grande illusione garibaldina e irredentista.
È vero, da altre parti come a Pontelandolfo, al quale dedicheremo una delle prossime puntate, la ferocia degli «italiani» nei confronti delle popolazioni meridionali talora rimaste fedeli ai Borboni fu addirittura maggiore. Ma è a Bronte la perdita dell’innocenza. È lì che si macchia, come ricordano Franco Cimbali («c’è chi ha detto che la storia si scrive a matita, ci vuole tempo a volte per riscrivere quella dei vincitori») e il professor Pappalardo, il mito liberatorio garibaldino. È lì che viene sacrificato il primo patriota che credeva davvero, nei valori liberali e unitari. Quel Niccolò Lombardo che aveva guidato il movimento di riscatto sociale e filogaribaldino e non era poi riuscito a fermare la rabbia popolare messa in moto.
Eppure Bronte non è solo il luogo fisico dove si spezza un certo sogno unitario. E anche il luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali da parte di troppi poteri: la Chiesa, i Borboni, i garibaldini pressati dalla Gran Bretagna, i Savoia, lo Stato italiano. Basti ricordare che non solo l’Italia democratica e repubblicana restituì inizialmente ai Nelson i loro possedimenti requisiti dal fascismo e permise ai padroni della Ducea di demolire il Borghetto Caracciolo che era stato fondato proprio con quel nome per ricordare l’eroe della Repubblica napoletana del 99. Ma non bastò neppure la legge agraria regionale del 1952, l’anno del terrificante reportage di Carlo Levi, a demolire il feudo e a distribuire le terre ai contadini. Distribuzione avvenuta solo tra il 1963 e il 1965. E ostacolata fino all’ultimo dalla tignosissima famiglia che nel libro «The Duchy of Bronte», una sorta di memoriale, aveva rivendicato: «Un tempo la Ducea doveva mantenere cinque avvocati a Catania, due a Palermo, uno a Messina, uno a Roma, uno a Tortorici, oltre ad un notaio a Bronte».
Ma se per mezzo millennio è stata campo di battaglia, sociale, politica e avvocatesca intorno alla Ducea, Bronte lo è oggi per il potere (quello vero) dentro la destra siciliana. Che poi rappresenta il nocciolo duro (si pensi ai 61 seggi parlamentari su 61 conquistati nel 2001) della destra italiana. A maggior ragione centrale, come dicevamo, oggi. Dopo la diaspora finiana.
E come sempre anche stavolta pare averci messo lo zampino Luigi Pirandello. L’intera storia politica di don Pino Firrarello, l’oscuro patriarca secco secco del Pdl isolano, cugino acquisito e sodale dell’euro-deputato berlusconiano Vito Bonsignore (uno dei politici-finanzieri più potenti della penisola, brontese d’origine e torinese d’adozione) ruota infatti intorno a tre Lombardo. Lombardo (Nicolò) era il povero intellettuale fucilato da Nino Bixio al quale il nostro restituì l’onore con il processo postumo del 1985 e la f a mosa de molizio ne della targa stradale mai seguita dalla reale abolizione toponomastica. Lombardo (Nunzio) era il boss andreottiano della Dc di Bronte quando il giovane Pino prese possesso della cittadina: «Era potentissimo, io lavoravo al dazio e mi chiese di stracciare una multa. Non la stracciai e mi dichiarò guerra. L’accettai. Durò 10 anni, la guerra. Alla fine non contava un pistacchio».
Anche quella contro il terzo Lombardo, Raffaele, è una guerra che va avanti da anni: «Lo inquadrai definitivamente quando si insediò alla presidenza della provincia. Fece venti minuti di filippica contro Cuffaro: “Usa l’accetta, taglia tutto, smettila con le clientele!”. Poi ha fatto sempre il contrario. Non è un governatore: è uno sgovernatore. No, non credo che sia stato lui a scatenare i giudici contro Totò. Ma lui ne ha approfittato per rifarsi una verginità».
Il governatore ha risposto andandogli a dare battaglia in casa, a Bronte. Candidando alle ultime comunali un funzionario dell’Asl addetto ai ticket sanitari, Aldo Catania, che aveva miracolosamente raccolto una montagna di preferenze alle provinciali. E accusandolo direttamente nell’aula dell’assemblea regionale non solo di avere rapporti ambigui con un mafioso, Carmelo Frisenna, ma di coltivare affari non chiari nel mondo dei rifiuti, facendo riferimento a una «società che faceva capo al signore che era il leader della mafia nella Sicilia orientale», cioè Nitto Santapaola, «coinvolta nell’affare dei termovalorizzatori» e chiedendo che su questi inceneritori si andasse a fondo cercando «nomi e prestanomi». Non contento, ha tirato in ballo Firrarello anche in un’audizione all’antimafia rivelando poi ai cronisti di aver parlato molto «di Paternò a proposito dei termovalorizzatori e della compravendita dei terreni».
«A mmia?» è sbottato Firrarello. E non perde occasione per sparare a zero, insieme con Beppe Castiglione, sul rivale: «Io so che dove ci sono gli inceneritori non c’è il caos. Perché in Sicilia non li fanno? Il problema è l’area? Li faccia da un’altra parte. Sulle sue insinuazioni l’ho già querelato. Faccio solo notare che il governo regionale, in controtendenza con il resto del mondo, non solo insiste ma ampia il sistema delle discariche. Perché lo Sgovernatore non vuole inceneritori? Le discariche sono più redditizie».
Su un solo punto, dice, lui e il genero che alla provincia di Catania è subentrato proprio a Lombardo («Lui aveva 39 dirigenti, io li ho portati a 26. Se avessi la stessa struttura sua spenderei 6 milioni di euro in più: io ho nove assessori, lui ne aveva 15) non vanno d’accordo: «Diciamo pure che la famiglia ad avere opinioni diverse. Io e mia figlia saremo per rompere subito con Lombardo in tutte le realtà locali, una quarantina, in cui siamo ancora insieme. Mio genero e mia moglie solo per lasciare per ora le cose come stanno, pensando che si logori». Chi la spunterà? Pare impossibile, ma il destino della destra siciliana e di rimando perfino quello della destra italiana potrebbe dipendere, almeno un po’, da questo bisticcio in casa Firrarello.