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 2010  luglio 26 Lunedì calendario

IO, RAPITO DA KUBRICK E DELUSO DAI COEN

Jeffrey Eugenides ama profondamente il cinema, e appartiene a quella categoria di scrittori che lo considera un´arte a tutti gli effetti. Dal modo in cui parla dei film della sua vita risulta evidente che del cinema rispetta l´elemento industriale, e non ritiene che possa rappresentare un limite per i risultati («sempre che il regista abbia talento, ovviamente»). Né si preoccupa di divisioni tra arte alta e popolare, e vede con sospetto ogni approccio dichiaratamente intellettuale. Ha ammirato sinceramente l´adattamento cinematografico che Sofia Coppola ha fatto del suo romanzo Il giardino delle vergini suicide, non solo per il fatto che il film sia "estremamente fedele" al libro. «Sofia ha deciso di adattare il romanzo perché lo amava», spiega nel suo ufficio universitario di Princeton «e ha compiuto ogni scelta partendo dalle immagini, cosa che nel processo di adattamento trovo sempre ammirevole. Inoltre è riuscita a dare all´ambientazione retro un elemento di fascino, senza cadere nella trappola della nostalgia». Quando gli chiedo di raccontarmi quali siano i suoi film preferiti, ci tiene a fare una premessa: «Parlerò di quelli che hanno avuto un maggiore impatto su di me. Sarebbe facile elencare alcuni classici indiscussi, ma in qualche misura anche inutile. Credo che sia interessante confessare i film che mi hanno cambiato, turbato e in qualche modo fatto crescere. Per me, e credo non solo per me, sono molto più importanti».
Cominciamo dal primo.
«L´inizio del cammino (Walkabout) di Nicholas Roeg. Lo vidi da ragazzino quando uscì, nel 1971, e rimasi sconvolto».
Quali sono gli elementi che la colpirono maggiormente?
«La storia e l´ambientazione. Due elementi che si fondono mirabilmente, e già questo è un elemento di chiara qualità. Il film racconta di due ragazzini che si recano con il padre in un posto remoto e meraviglioso dell´Australia. Tutto sembra idilliaco, fin quando l´uomo non si suicida. È un momento che continua a turbarmi ancora adesso. Ma oltre la tragicità della sorpresa, Roeg coinvolge lo spettatore in qualcosa di ulteriormente disturbante. In quegli anni la natura era idealizzata e in qualche modo lo è anche in questo caso, ma in L´inizio del cammino il luogo diviene centrale per un passaggio di formazione doloroso, sorprendente e affascinante. La cosa che ancora ricordo con emozione è il modo in cui la ragazzina è costretta ad interagire e poi a convivere con gli aborigeni».
Il rapporto ambiguo con una natura meravigliosa è il tema di un altro grande film uscito negli stessi anni: Un tranquillo week-end di paura di John Boorman.
«Un altro film che mi ha sconvolto, che ha qualche affinità con il film di Roeg, ma nel caso di L´inizio del cammino rimasi rapito, e in fondo lo sono ancora dal modo in cui la giovane protagonista scopre il paradiso, per poi dover tornare a vivere nella sempre malinconica periferia di una città».
Anche nel film di Boorman c´è il ritorno in città.
«In quel caso l´itinerario è costruito attraverso una violenza subita, alla quale i protagonisti reagiscono con analoga violenza. Al loro ritorno quanto è avvenuto, e lo stesso luogo, rappresenta un incubo, mentre nel caso di L´inizio del cammino rappresenta un momento a cui si ripensa con sentimenti ambivalenti, nonostante il dolore che ad esso è legato».
Passiamo al secondo film.
«2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, che in effetti per molti è un classico. Lo scelgo perché è un film che mi ha aperto la mente e l´immaginazione. Ho un ricordo ben preciso: mio fratello maggiore, che all´epoca era al college, fingeva di aver capito il significato recondito ed i simboli del film. Parlava di elementi mistici, e io in qualche modo ne intuivo la presenza. Dicevo a me stesso che non vedevo l´ora di andare al college per poter capire anch´io film del genere».
Qual è la scena che l´ha maggiormente colpita?
«La lotta tra le scimmie che si conclude con l´osso spezzato per terra che rimbalza in alto verso il cielo e si trasforma in un astronave. Uno stacco di montaggio che consente un passaggio di migliaia di anni in maniera coerente ed estremamente suggestiva. Cinema allo stato puro».
Il suo primo film è ambientato in un luogo remoto, il secondo nello spazio.
«Ma il mio terzo è totalmente urbano: Io e Annie di Woody Allen».
Cosa le piace in particolare?
«È una grandissima commedia, costruita alla perfezione. A mio avviso è il capolavoro di Woody Allen, e trovo semplicemente geniale l´uso che fa del proprio personaggio: un narratore che è anche un comico che rilegge la vicenda mescolando le storie con riflessioni e battute. All´epoca vivevo a Detroit e devo a quel film se ho cominciato a capire e sognare cosa significasse vivere a New York. E sono molte le scene memorabili: la famiglia del protagonista che vive sotto le montagne russe, la visita che lui fa a casa di Annie, con la gelida famiglia wasp. Ancora rido se penso alla scena in cui Allen mette a confronto la propria famiglia ebrea con quella della donna che ama. Per non parlare del personaggio di Christopher Walken, il fratello di Annie afflitto da mania suicida. Poche volte un argomento del genere è stato trattato in maniera così esilarante».
Qual è il quarto film?
«Il nuotatore, il film che Frank Perry ha tratto da un grande racconto di John Cheever. È uno dei migliori adattamenti di tutti i tempi, specie se si considera che si tratta di un storia breve, con un´idea estrema. Cheever fa anche una piccola parte nel film, e credo che questo testimoni il fatto che lo abbia apprezzato».
Qual è il momento che preferisce?
«Amo la scena in cui Burt Lancaster afferra una donna e la porta a nuotare con sé. Ma devo dire che ogni sfumatura dell´interpretazione di Lancaster è di altissimo livello: il film sarebbe inconcepibile senza di lui. Si tratta di una storia molto difficile e rimango ammirato che sia stata adattata così efficacemente sullo schermo. E non è meno difficile la vicenda del quinto film, che non è un adattamento da un libro, ma qualcosa creato dalla fantasia dell´autore: Safe di Todd Haynes».
È un film che negli anni è diventato di culto, ma quando uscì non ebbe un grande riscontro critico né commerciale.
«Si potrebbe dire lo stesso di molti film importanti. In questo caso mi sembra che si tratta di un film impeccabile per fattura e per il modo in cui è ricreata l´atmosfera. Ma il dato più interessante è l´elemento profetico: quasi venti anni fa raccontava molte paranoie odierne, a cominciare dalla paura di essere avvelenati chimicamente. Un film che vuole comunicare disagio e ci riesce, con una strepitosa interpretazione di Julianne Moore»
Chiudiamo con un film apprezzato universalmente che a lei non piace.
«Generalmente non apprezzo i film dei fratelli Coen, ma mi sono dovuto ricredere di fronte a Non è un paese per vecchi, un magnifico adattamento da Cormac McCarthy. Ma il film considerato classico che non riesco davvero a digerire è Il disprezzo di Godard. Una pellicola davvero insopportabile».
Billy Wilder diceva di Godard «dietro quelle sue pretese intellettuali si nasconde soltanto un dilettante».
«Condivido perfettamente, ed è un motivo in più per amare un gigante come Billy Wilder».